la somma della relatività

Ho fatto benzina, vado a pagare e torno in macchina. Non ho le chiavi,devo averle lasciate sul banco mentre firmavo la ricevuta della carta di credito. Scendo dinuovo, sono di fretta, metto un piede con la suola di cuoio sulle matonelle bagnate e scivolando batto con l’osso sacro sul marciapiede.

vorrei portare il computer sul divano, da dove potrei guardare le mail praticamente sdraiata. La schiena mi fa male ma camminare è davvero impegnativo.Non riesco ad avere una posizione eretta, cammino come quelle anziane signore che a volte incontriamo a 90 gradi sulla strada per il supermercato. Non mi sono mai chiesta cosa vedano da quella prospetiva, quanto possa essere diverso dal mio il loro panorama quotidiano.

Non riesco a sopportare il peso di questo chilo scarso di metallo e il pensiero mi vaga a compiangere un amico ormai passato a miglior vita. Quando lo vedevo passeggiare con il suo deambulatore pensavo che si trattasse di un pretesto per essere in qualche modo compatito. Ora penso con vergogna che ero io da compatire! Penso a tutti gli errori che uno fa pechè crede di avere eguali diritti e doveri, di essere come gli altri, o meglio che gli altri siano come lui senza contare che il tempo e la prospettiva separino + di muri di cemento. Penso a mia madre e al suo desiderio di essere compresa che a volte scivola nella teatralità. Penso a mio padre e alla necessità assoluta che ha di rassicurarsi esprimendosi a volte con un tono perentorio moderatamente aggressivo. Penso a mio fratello che vuole condividere le sue buone idee e poi si accorge che non riesce a condividerne la bontà nemmeno con coloro che ama.

Penso a un tizio che ha lavorato per me per un sacco di tempo e che non ho mai saputo chi fose ne mi sono mai sprecata a fargli capire chi fossi io.

Impossibilitata ad agire, dal divano di casa le cose sembrano diverse che dalla scrivania dell’ufficio.
Penso ad una vecchiaia che ancora non c’è ma la cui arida soglia già si intravede sul viso di persone che conosco appena o che reputo amiche.

Perché dovrebbe ferirmi il fatto che ad una mia richiesta di assistenza l’ex collega mi abbia gentilmente sfanculato? Ci rimango male perchè ne avrei bisogno e non ho ottenuto quello che volevo o perchè credo di meritarmelo?

La qualità della vita è fatta di piccole cose che sottovalutiamo ampiamente, eppure basta poco per sentirsi inadeguati.

Ieri in pronto soccorso, mentre aspettavo sulla barella che mi facessero la lastra sono entrati 3 “psichiatrici”, sono quelli che pesano 20 kg si vestono come la versione hardcore di Pippicalzelunghe e non smettono mai di parlare. Sono quelli che li ricoverano in vestaglia e occhiali da sole beccati nell tentativo di farla finita. Sono quelli che invocano la presenza della mamma e forse sono mamme loro tesse e da parecchi lustri.
Chi sa come ha cominciato “calzelunghe” a mettersi il rossetto sulle guance, a disegnarsi gli occhi da fumetto a smettere di mangiare tanto magra che le ginocchia sporgono dalle calze a rete quasi fossero ossa nude che si impicciano negli intrecci di cotone.
Le grida della donna che invoca sua madre dilatano l’occhio di un ragazzino delle elementari con un piede scalzo seduto sulla sedia a rotelle, socchiude la bocca protende lo sguardo, forse a cercare la sua di mamma, che sarà rimasta al di la della porta, xchè i parenti devono aspettare in sala d’attesa, questa è la regola.

Ma di tutte le regole che speriamo ci salvino dall’andaere all’inferno, ce n’è forse una che ci renda capaci di guardare in faccia la miseria dell’uomo che ci assomiglia senza provare orrore e disgusto e poi indifferenza? Ce n’è una che ci obblighi a tendere una mano, che tanto farebbe comodo anche a noi, che ci potrebbe salvare?

Le regole sono uguali per tutti e l’uguaglianza in questo caso non è cosa buona ne giusta

essere se stessi

 

 

dicono che gli artisti ci riescano attraverso la loro arte, ma è come dire che i pazzi ci riescono attraverso la loro pazzia.
L’arte come la pazzia, non si possono giudicare.
Io potrei dire che adesso non mi fa così paura che qualcuno possa accorgersi di quanto poco sappia. Tollero il mio corpo e non ho + timore che mi si possa vedere così come sono. Ma certo non è tutto. Io sono + di una semplice ammissione di pochezza. Sono anche una grande dimostrazione di forza, soprattutto ora che le cose mi appaiono agli antipodi pur sembrando identiche.
A chi fosse completamente a digiuno delle fattezze di un essere umano, come potrei descivermi? Dovrei poter vedere l’altro e in riferimento a ciò che di lui vedo spiegare me
Ecco perché è così difficile capirsi, noi non vediamo quasi mai l’altro, xché la sua volontà non è di mostrarsi, ma quell’altro siamo noi. Il mondo è fatto indiscutibilmente di tanti noi, dentro e fuori di noi.
Come una pianta che abbia germogliato senza pace, una pianta che ha raggiunto i confini del suo vaso e non ricorda + di essere se stessa vacillante nel vuoto, appesa penzoloni, quanto all’umida ombra di una massa simile a se stessa, che la sovrasta e la comprime a terra.
In questo esistere, che ci fa essere + grande di noi, non sappiamo vederci, non ci incontriamo +, separati da molti noi stessi che hanno messo al primo poto il diritto e la necessita di vivere e non quella di essere.
Se anche avessi compreso la malattia di questo corpo, non avrei fatto molta strada perché ancora non so da dove cominciare a conoscerlo e a far si che riconoscendosi ceda all’idea che ogni sua parte esiste anche se non vive o sopravvive, che le sue funzioni sono prioritarie rispetto all’unicità organica.
Come si spiega ad una cellula cancerogenache non c’è  +bisogno di lei?