Pavese

“Essere qualcuno è un’altra cosa, -dissi piano-
Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole
fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto
coraggio. Il coraggio di starsene soli come
se gli altri non ci fossero e pensare soltanto

Che lo abbia scritto proprio Cesare Pavese fa pensare ma è stata una scoperta casuale

Qualche giorno fa il mio parrucchiere mi ha riferito della conversazione avuta con un’altra cliente “mi diceva che aveva sentito un intervista ad un filosofo importante, il succo è che per come stanno andando le cose tra breve ci sarà una guerra, una guerra di quelle che ci farà retrocedere ad uno stadio inimmaginabile”

Sarà forse per questo che ho preso in mano il libro di Pavese, come si legge voracemente un vecchio giornale nella nostra lingua se ci si trova in terre straniera. Per capire cosa pensa e come vive la gente una guerra.
Scopro che allora come adesso, la guerra ha il suo fascino, che c’è chi ce la faceva a stento e chi ce la faceva comunque. Che i giovani avevano un sacco di energia ma non sapevano cosa farne, che quelli di mezza età erano scontenti e anestetizzati proprio come oggi. Che le donne erano le uniche a vivere nel presente, le madri almeno, e quelle che lo erano state. Che la gente si aspettava che il cambiamento arrivasse, che non dipendesse da loro. E le bombe fioccavano a Torino e a Milano, eppure non era guerra, che si dormiva nei prati e si scappava dagli edifici in fiamme, eppure non era guerra. Perché guerra vuol dire fucile e dover decidere della vita di un altro, non una bomba che piomba da chi sa dove per colpire senza nulla di personale.
Una guerra di droni non avrebbe nemmeno le trincee, gli eroi e i disertori. Potrebbero esserci milioni di vittime bianche senza che mai nessuno abbia colpito o fatto fuoco dovendo scegliere guardando lo sguardo di un altro diventare vitreo, la vita trasformarsi in morte a causa propria.
Si, ho risposto al mio parrucchiere, l’unico modo per evitarla è credere che potrebbe realmente accadere.
“Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?” Cesare Pavese, da Lavorare stanca 1936