Tutti gli articoli di Zano

Mi piace scrivere ma sono un ghost di professione quindi è possibile che le mie migliori idee rechino la firma di un altro

Il Non Edificio

La School of Art, Design and Media di Singapore è, probabilmente, l’università più avveniristica al mondo: costruita nel 2006, è stata definita un “nonbuilding”, un “non-edificio” di 18 mila metri quadri distribuiti su cinque piani. 

Immersa in un parco di 200 ettari, riesce a mimetizzarsi quasi fosse un capanno da caccia; tre palazzi a forma di anfiteatro, con un piccolo lago artificiale al centro, si sfiorano e si intersecano, con tetti erbosi che, a livello del terreno, salgono dolcemente per poi ridiscendere con uguale pendenza, diventando colline su cui passeggiare. Le pareti sono enormi cristalli: durante il giorno riflettono l’ambiente naturale circostante e la notte trasformano l’edificio in una grande e fiabesca lanterna, giocando con le armoniche asimmetrie del pensiero orientale.

Le trasparenze e le sinuosità danno la sensazione di un continuo tra gli spazi interni e il parco circostante, la cui vegetazione colonizza questa grande struttura.

Nato con l’idea di preservare un grande polmone verde per la città, il progetto della School of Art, Design and Media è un esempio riuscito di architettura ecosostenibile, con un impatto ambientale minimo rispetto alle grandi dimensioni e un ridotto consumo di energia, grazie agli isolamenti termici e al tetto di terra e erba.

Infibulazione

L’infibulazione, subita da gran parte della popolazione femminile somala, è quella pratica pseudoreligiosa con la quale vengono amputati gli organi sessuali. È il più brutale tra i riti di iniziazione, destinato a segnare l’intera esistenza di chi lo subisce: le vittime sono bambine che non hanno ancora raggiunto l’età fertile.

La giovane donna di un villaggio agricolo sul fiume Shebeli, vicino a Mogadiscio, descrive così quel drammatico intervento:

“Mi fecero sedere su uno sgabello nuda e, dopo avermi legato le mani, una donna alle mie spalle mi bloccò abbracciandomi, altre due mi divaricarono le cosce perché la vulva restasse ben aperta. La gedda (ndr così viene chiamata l’anziana del villaggio che pratica l’infibulazione) nel nome di Allah, il Clemente e Misericordioso, impugnò il coltello e con un taglio rapido mi amputò la clitoride; io urlavo e tentavo di divincolarmi, mentre guardavo mia madre che stava in piedi davanti a me. Poi mi asportò le piccole labbra e scarnificò i contorni delle grandi labbra, li unì e li suturò con due, tre spine di acacia, per farli cicatrizzare l’uno con l’altro; lasciò solo una piccola apertura per permettere all’urina e al sangue mestruale di uscire; infine, aiutata dalle altre donne, mi legò le gambe con una fune di stoffa. Mi immobilizzarono per un mese. Il mio sesso era diventato impenetrabile e restò tale fino al giorno in cui fui data in moglie. Mio marito, usando solo le mani e il pene, partendo dal piccolo orifizio lasciato dalla vecchia il giorno dell’iniziazione riaprì di nuovo la vulva lacerandola. Avevo sedici anni.

Horror of female circumcision – AlJazeera

Mutiliazione genitale femminile – Amnesty International

L’Isola della Reunion

La Terra della Distruzione

Quando nell’autunno del 1153 il geografo arabo Al Sharif el-Edrissi, vide davanti alla prua del suo dhow quello scoglio che imprigionava le nuvole in viaggio dall’India verso l’Africa meridionale, pensò che aveva un aspetto poco rassicurante e si avvicinò con grande prudenza.
Consultò una rozza carta nautica che risaliva a più di un secolo prima, tracciata dall’ammiraglio della flotta del re tamil Rajaraja Chola, e guardò con diffidenza ancora maggiore le onde che si frangevano contro la barriera corallina, le rocce, i picchi coperti da nuvole plumbee, il fumo denso che saliva fino a nascondere il sole.
Ci sarà pur stata una buona ragione se i tamil a quello scoglio avevano dato il nome di Theemai Theevu, Terra della Distruzione.
Al Sharif el-Edrissi non ci perse molto tempo, gli bastarono quattro giorni per circumnavigarlo e, tornato al punto di partenza, disegnò un cerchietto nero sulla sua mappa a 21 gradi a Sud dalle equatore e a 700 chilometri a Est del Madagascar, lungo la rotta tra l’India e il Capo di Buona Speranza, al centro della fascia su cui corrono i terribili cicloni tropicali, e lo chiamò Dina Morgabin, Isola dell’Occidente, a occidente di non si sa cosa.
Una settimana dopo, sbarcato al porto di Zafiraminia, considerò quel piccolo cerchio quasi fosse una macchia d’inchiostro, del kohl caduto mentre si truccava gli occhi, e venne dimenticato per un lungo, lungo periodo.
L’isola della Reunion si difende anche in questo modo, mostrandosi impervia e inospitale; se la si incrocia arrivando dal meridione non offre certo buoni approdi: imponenti pareti di roccia vulcanica inquietantemente scure, trasformate dalla violenza del mare in falesie
verticali, ne fanno una fortezza naturale inavvicinabile.
Passati tre secoli, quello scoglio che affiora nel mezzo dell’oceano divenne un punto di transito dei navigli portoghesi in viaggio verso l’India, ma appariva talmente insignificante che le loro carte nautiche lo ignoravano.
Nel 1504, sulla caravella comandata da Diego Fernandez Peteira, un giovane ufficiale di rotta, dovendo prender dimestichezza con l’uso dell’astrolabio , ne rilevò le coordinate e le segnò sul giornale di bordo. Era il 9 febbraio; dovendo dargli un nome ed essendo venerdì, pensò di chiamarlo Sextafeira, ma alla fine scelse Santa Apollonia, la santa del giorno, patrona dei dentisti.
Il nuovo nome non servì a renderla più attraente; l’isola rimase ancora disabitata per più di un secolo, fino al 2 ottobre 1654, giorno in cui il francese Antoine Couillard sbarcò in una baia del nord ovest con due suoi connazionali, cinque malgasci, cinque vacche, un toro,
due maiali, alcuni volatili e delle piante di tabacco.
Da quel momento divenne un pezzo di Francia, che cambiava nome ad ogni terremoto istituzionale: con Luigi XIV venne battezzata île Bourbon, île de la Reunion durante gli anni della Rivoluzione, île Bonaparte con Napoleone.
Gli abitanti si moltiplicarono e si adattarono al suo carattere un po’ scontroso: terra di cicloni, di maremoti improvvisi, con un vulcano che riesce a trasformare in rogo persino l’acqua dell’oceano e piogge tanto intense da non avere pari in nessun’altra parte del
mondo.
Quel “quasi niente” nell’oceano, non più grande di Parigi con la sua periferia, è un piccolissimo continente: lungo le coste del nord ci sono conche fertili e vallate rigogliose tra montagne che trasudano acqua, ma basta percorrere cinquanta chilometri e, arrivati al
confine Sud, si scopre la siccità, con le nuvole bloccate dai massicci dei Cirque de Mafate, Salazie e Cilaos.
E se a livello del mare la temperatura non scende mai a meno di 27 gradi, sui monti vulcanici si finisce sotto lo zero: alla Reunion, viaggiando in auto per tre ore, si può passare dal caldo oceano tropicale alla neve del Piton des Neiges, fino ai fiumi di lavanincandescente del Piton della Fournaise.
Un luogo anomalo con una storia anomala.
Il primo nucleo di residenti trovò solo qualche pacifico animale che per millenni aveva vissuto indisturbato, tanto da diventare geneticamente e morfologicamente incapace di difendersi.
Fu il caso del dodo, un grasso e pigro uccello che non sapeva più volare, con un’aria tutt’altro che intelligente, il cui destino divenne quello di facile preda per gli ospiti. Non che la sua carne fosse cibo prelibato, i marinai olandesi nel millecinquecento lo avevano
battezzato “Uccello Disgustoso”, ma era comodo da prendere, almeno quanto una mela dall’albero, e questo fu sufficiente per portarlo all’estinzione.
Oggi la Reunion è una meravigliosa isola, forse un po’ troppo abitata.
Grande quanto un terzo della Corsica, con poco meno di 800 mila abitanti, dal 1946 è una Regione d’oltremare della Francia, un frammento politico e amministrativo del Vecchio Continente tra Africa e India, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta: uguale trattamento economico dei lavoratori francesi, uguale costo della vita (forse addirittura più cara), identici diritti per servizi sociali e assistenza sanitaria.
L’Unione Europea la considera regione “ultraperiferica”, sia per ragioni di distanza sia per lo sviluppo del sistema produttivo, e per questo interviene con consistenti aiuti finanziari, tanto che, pur essendo lontana dall’autosufficienza, gode di un benessere piuttosto
diffuso.
Non c’è nessun altro luogo nel raggio di 5 mila chilometri in cui la qualità della vita sia così elevata, benché le uniche voci attive nella bilancia commerciale riguardino la produzione della canna da zucchero, con i suoi derivati, e della vaniglia. Il turismo, nonostante le straordinarie bellezze naturali, a causa dei prezzi piuttosto impegnativi e della grande concorrenza delle vicine isole Mauritius e delle Seychelles (sicuramente più economiche) stenta a decollare.

Melange alla Reunionese

Bisnonna nera e bisnonno bianco, nonno meticcio e nonna bianca, genitori entrambi bianchi; lui, il primo figlio, con una moglie cinese incinta, suo fratello tiene sottobraccio la fidanzata, una ragazza di cui è impossibile immaginare la provenienza, sembrerebbe orientale se non fosse per gli occhi azzurri.
Non è raro incontrare famiglie così variegate passeggiando in una delle città di questa isola, perché alla Reunion non esiste una razza autoctona ed è assai problematico seguire i dettami del “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. Fino alla metà del ‘600 era completamente disabitata, poi sono arrivati i francesi, i malgasci, i neri dall’Africa continentale, i gujarat e i tamil dall’India, i cantonesi dalla Cina, gli arabi dallo Yemen e da Zanzibar, e il risultato non è quello di una popolazione multietnica: gran parte dei reunionesi sono, individualmente, multietnici, con un albero genealogico che abbraccia tre continenti e gran parte delle culture esistenti.
Questo è uno dei rari posti al mondo, forse l’unico, in cui non ha senso parlare di integrazione razziale perché, anche nella piramide sociale, si passa senza soluzione di continuità dal bianco al nero, dai capelli chiari a quelli scuri, dagli occhi a mandorla agli occhi azzurri. Difficile essere razzisti quando in famiglia si hanno antenati di provenienze diverse, impossibile essere xenofobi se tutti, ma proprio tutti, ricordano ancora il proprio avo “straniero”.

Il tesoro della Poiana

Alle 5 del pomeriggio di venerdì 7 luglio 1730 il boia infilò il cappio al collo del pirata Olivier Levasseur, soprannominato La Buse, la Poiana; tutti gli abitanti di Saint-Denis, poche centinaia di persone, furono invitati ad assistere a quella esecuzione. Mentre saliva sul patibolo, La Buse si strappò la collana e la lanciò a quella piccola folla urlando: “Mon trésor à qui saura comprendre !” (Il mio tesoro è di chi saprà capire! ).
Appeso alla collana, in un contenitore di cuoio, vi era un foglietto su cui aveva scritto un crittogramma di 17 righe: era la mappa cifrata del luogo dove aveva nascosto le sue ricchezze.
Poco prima aveva detto alle guardie che lo scortavano: “Con quel che ho qui potrei comprare l’intera isola”.
Il pirata non mentiva: in 14 anni di folgorante carriera era riuscito ad accumulare un’enorme fortuna, pari a quella di un re.
Il grande colpo della sua vita lo mise a segno quando aveva 30 anni, il 17 aprile del 1720.
Navigando non distante dalle coste dell’isola della Reunion, si trovò nel mezzo di una tempesta e decise di far rotta verso il porto di Saint-Denis. Arrivò che era ancora notte, la luna quasi piena illuminava una caracca portoghese a quattro alberi che aveva trovato rifugio nella baia: era la Nossa Senhora Do Cabo.
All’alba la attaccò.
La Buse, la Poiana, si lancia in picchiata sulla preda lasciandola senza scampo; i suoi uomini vanno all’arrembaggio e con un’azione fulminea si impadroniscono di una nave da 800 tonnellate, armata con 72 cannoni, che ospita Luís Carlos Inácio Xavier de Meneses, conte di Ericeirae, marchese di Louriçal, vice-governatore delle Indie Orientali, e l’arcivescovo di Goa, Sebastian de Andrado, ma, soprattutto, trasporta un tesoro dal valore incommensurabile in pietre preziose, oro e argento, che oggi viene valutato in più di due miliardi di euro.
Olivier Lavasseur fa sbarcare gli ospiti e l’equipaggio, per salpare con la Nossa Senhora Do Cabo e il suo carico prezioso, di cui si perde ogni traccia.
Per i successivi 200 anni scompare anche il crittogramma lanciato da Lavasseur alla folla il giorno della sua impiccagione, fino a quando, il 15 luglio del 1934, nell’edizione domenicale del Milwaukee Journal, quotidiano del Wisconsin, viene pubblicata un’intervista a Charles de la Roncière, funzionario della Biblioteca Nazionale di Francia, che afferma di possedere il crittogramma e lo rende pubblico.
Da quel momento inizia una caccia al tesoro che ancora oggi continua in un’area piuttosto vasta dell’oceano Indiano: Isola della Reunion, Seychelles, Rodrigues, Madagascar, Mayotte, Isola di Sainte-Marie.
Ecco il crittogramma.

La Diagonale dei Folli

Centocinquanta chilometri di saliscendi tra foreste tropicali, pietraie e crateri vulcanici: il Grand raid de la Reunion è una delle più dure e delle più lunghe maratone al mondo.
Ogni autunno, da 17 anni, duemilacinquecento persone provenienti dai cinque continenti si ritrovano a Cap Mechant, nell’estremo Sud dell’isola, per percorrere quella che viene chiamata “La diagonale dei folli”; i migliori chiudono la gara in poco più di 22 ore, a una media di 7 chilometri l’ora, con poche soste e neppure un minuto di sonno, gli ultimi ci mettono 2 giorni e mezzo; il 40% dei partecipante non riesce a tagliare il traguardo, perchè
vinto dalla stanchezza o vittima di una caduta.
Il via viene dato alle due del mattino nello stadio di Cap Mechant, all’estremo sud dell’isola, sulle rive dell’oceano.
Dopo un breve tratto di pianura inizia il susseguirsi di salite e discese: a 30 chilometri dalla partenza si è a 2350 metri di altitudine, sulla cresta del Piton de le Fornaise, il vulcano attivo della Reunion, poi si passa a 900 metri per risalire oltre i 2000 e ridiscendere fino al mare.
La gara si conclude a Saint-Denis, capoluogo dell’isola, nell’estremo Nord.

L’edizione del 2011 si terrà dal 13 al 16 ottobre.

Singapore

La scultura di Botero sul Singapore River è una rappresentazione efficace di questa città: un uccello grasso e ben piantato sulle zampe, che sicuramente non riesce a prendere il volo ma non sembra disposto a diventare preda di qualcuno.

Singapore è il paese degli eccessi, perfetta per Botero, talmente dilatata da occupare tutto lo spazio vitale di cui dispone.

La sovrabbondanza

Questo minuscolo arcipelago, incastrato tra Malesia e Indonesia, a un solo grado a Nord dalle equatore, in meno di 600 chilometri quadrati ospita cinque milioni di persone; piove sempre, in qualunque giorno di qualunque mese dell’anno il cielo si copre improvvisamente e scendono cascate d’acqua; i suoi grattacieli sono tra i più alti del mondo; 4 le lingue ufficiali, 13 quelle più parlate; 7 sono le religioni principali, con cattedrali in stile gotico, pagode, moschee, templi induisti e buddhisti.

Passeggiando per le strade del centro non si riesce a capire dove finisce l’apparenza e dove inizia la realtà; ci si guarda attorno e regna un ordine inusuale: tutto è perfetto, lindo quanto la Piazza Rossa a Mosca nei giorni del comunismo, non c’è nessun ingorgo, nessuna coda, neppure un colpo di clakson.

La criminalità si avvicina allo zero, forse perchè le punizioni sono tutte tragicamente esemplari; questa è la nazione che, in rapporto al numero di abitanti, applica con maggior frequenza la pena di morte.

Singapore è il Paese dei divieti: vietata la pornografia, vietato avere una parabola satellitare, vietato acquistare e masticare chewingum senza ricetta medica; fino a qualche decennio fa ai maschi era vietato portare i capelli lunghi.

La pari dignità tra etnie e culti diverse è legge dello Stato e rispettata con rigore assoluto: cinesi, malesi, indiani europei, buddhisti, islamici, cristiani, induisti, sikh, ebrei e zoroastriani convivono senza alcuna tensione.

Modestamente ricchi

Singapore è ricca, molto ricca, il reddito procapite supera i 23 mila dollari l’anno, con un patrimonio accumulato producendo quasi nulla di materiale: grandi investimenti nella tecnologia informatica e, soprattutto, scambio di merci provenienti da altri luoghi, passaggi di mano per lo più virtuali, transazioni di borsa fatte al computer da migliaia di colletti bianchi, immigrati da ogni parte del mondo, che all’ora di pranzo hanno giusto il tempo di lasciare l’ufficio per scendere in un food court a mangiare un panino; gente che all’alba inizia a speculare sulla borsa di Tokyo e poi, in sovrapposizione, su quella locale, su Mosca, sui mercati europei e su New York che chiude quando sono le 5 del mattino, due ore di sonno e si ricomincia.

Singapore è il trionfo del libero scambio, l’impeccabile esempio miniaturizzato della società globale, dell’economia virtuale che domina l’economia reale; sembrerebbe la perfetta rappresentazione pratica della teoria liberista Occidentale, se non fosse per il fatto che Singapore è anche la modestia del Tao, che invita a non aver pretese se si compiono imprese difficili, perchè il destino di ciò che sale è quello di scendere, nella vita come in borsa, e la ricchezza ostentata e raccontata si esaurisce in fretta.

Il bazar delle culture

Qui non c’è nulla di autoctono ma si incrociano e si intersecano culture che provengono da altri luoghi. Tutto questo a un occidentale appare inquietante quanto l’uccello obeso del Singapore River, quanto l’arte di Botero, con i suoi personaggi strabici che non si sa da dove arrivino e dove stianno rivolgendo lo sguardo, perchè le diversità si incrociano ad ogni angolo di strada e non esiste più alcun rigore imposto dalla propria cultura, dalla fede, dalle tradizioni. Sri Mariamman, il tempio induista più grande e più sfarzoso, sorge nel bel mezzo di China Town, e se si prova a chiedere ai monaci che lo animano perchè non è stato fatto nel quartiere indiano, la loro risposta è laconica e non lascia spazio a repliche “Perchè, come vede, è stato costruito qui.”

Il treno del progresso

Se camminando tra i palazzi del centro si tiene lo sguardo ad altezza d’uomo ciò che appare è un ordine quasi amorevole, che sa di favola per bambini, di solida tradizione, ma alzando gli occhi al cielo la realtà cambia improvvisamente: l’ordine diventa geometrico, lineare e scientifico, l’architettura proietta la città verso l’alto, verso il domani, e le nostre metropoli diventano cosa vecchia, un po’ decadente. Quelle costruzioni non sono semplicemente delle torri che sfidano la forza di gravità per riuscire ad ammassare tra quattro mura migliaia di esseri umani, sono piuttosto opere dal disign sofisticato, enormi vasi da cui sbucano piccoli boschi e cascate di fiori, macchine metaboliche che funzionano prendendo energia dal sole. La chiamano “architettura ecosostenibile” e ci si ferma a gardarla un po’ imbarazzati: “Ecco qui il futuro, ecco il treno del progresso che ci supera e sfreccia davanti a noi”.

Affari di famiglia

Forma e contenuto sono difficili da distinguere. Il Paese si dichiara da più di quarant’anni una repubblica parlamentare e così sembra: solidamente democratico e liberista per vocazione; una democrazia guidata con mano ferma da un primo ministro che si chiama Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, padre della patria, che ha governato ininterrottamente per 31 anni. Insomma, è una repubblica assai simile a una monarchia, con un parlamento espresso dal popolo ma che non ha una grande libertà di espressione, e una democrazia non tanto democratica ai nostri occhi.

Lee padre e Lee figlio continuano a essere i leader indiscussi, e persino amati, di una nazione che può vantare un livello di corruzione pari a zero, una crescita economica senza soluzione di continuità e una visione progressista del mondo. Si sono entrambi laureati a Cambridge, il primo in legge e il secondo in matematica, uomini colti e soprattutto pragmatici, a tal punto da decidere che era il caso di cancellare la legge che dichiarava l’omosessualità un crimine solo quando un gruppo di ricercatori scoprì che, in giro per il mondo, le aree produttive più dinamiche e innovative erano quelle in cui vi era la più alta concentrazione di gay.

Per conservarsi sani e obesi

Ecco il senso dell’arte di Botero, che toglie la dimensione morale senza creare immoralità; così Singapore, con le sue leggi repressive e il suo governo autoritario, mostra delle aperture inaspettate: il diavolo e l’acqua santa, il lupo e l’agnello, possono tranquillamente stare l’uno accanto all’altro, purchè trovino un punto d’accordo, una buona ragione per cui valga la pena convivere. E la buona ragione è quella di poter rimanere obesi e ben piantati sulle zampe, senza mai perdere il contatto con la terra ma con un paio d’ali che, per quanto inadeguate, lasciano immaginare la potenzialità del volo, come la scultura sulla passeggiata del Singapore River.

La Città Globale

Le chiamano Global City, World City, Alpha City, e sono considerate le capitali della globalizzazione. Singapore è la quinta per importanza, dopo New York, Londra, Hong Kong e Parigi.

La classifica viene stilata sulla base di parametri come la ricchiezza, la qualità dei servizi, le iniziative culturali, la presenza di strutture avanzate nelle telecomunicazioni.

In quanto a ricchezza Singapore è tra i primi otto paesi al mondo (in rapporto alle dimensioni, naturalmente), con un prodotto interno lordo pro-capite che supera i 37 mila euro (in Italia non si arriva a 23 mila), un tasso di disoccupazione al 3% (7,5 in Italia) e un’inflazione che si avvicina allo zero. Per le telecomunicazioni il governo scommette sul fatto che tra cinque anni sarà la prima al mondo, e per arrivare a questo obbiettivo nel 2005 ha varato un masterplan decennale battezzato Intelligent Nation, la Nazione Intelligente. Gli obiettivi, che già oggi non sembrano affatto lontani, sono quelli di far crescere il fatturato delle industrie di telecomunicazione fino a 26 miliardi di dollari, spingere l’esportazione di prodotti tecnologici a 60 miliardi di dollari, creare 80 mila nuovi posti di lavoro, portare la banda larga al 90% degli abitanti, assicurare a ogni studente un computer connesso alla rete.

Augusto Franzoj aveva un sogno

Augusto Franzoj salì faticosamente il sentiero sulla collina stringendo tra le mani deformate dall’artrite il calcio di due pistole acquistate 11 anni prima a New York.

Raggiunta la cima si sedette sotto un albero e osservò Torino illuminata dal sole primaverile.

Fermò lo sguardo sul falso minareto appena costruito nel quartiere dell’Esposizione Internazionale e pensò a quanti ne aveva già incontrati, minareti veri con i muezzin che chiamavano i fedeli alla preghiera.

Da tempo sapeva che non sarebbe più andato in nessun luogo, perché a 63 anni aveva esaurito le forze e le risorse.

Pochi giorni prima “un povero travet ferroviario, che aveva avuto un tozzo di pane per merito suo e che egli amò come un figlio, dovette correre per tutta Torino alla ricerca di 100 lire per pagargli l’affitto e si sentì rifiutare l’obolo di Belisario da tante personalità insigni o pseudo insigni”.

Franzoj capì che era arrivato il momento di farla finita.

Si disse che lasciava assai poco in sospeso, forse solo un sogno, un ultimo sogno che lo aveva accompagnato negli anni del decadimento: tornare nel Corno d’Africa per trovare un tesoro di carta, rinchiuso in una cassa di legno con incise due lettere: AR.

Quel tesoro lo aveva visto, erano decine di taccuini e centinaia di fotografie.

Era la cassa di Arthur Rimbaud, che incontrò per caso a Tadjura, “un piccolo villaggio dancalo con qualche palmizio e qualche moschea, un forte con 6 soldati francesi e un sergente”.

Franzoj era alla ricerca dei laghi equatoriali e Rimbaud aspettava notizie per concludere un affare che, era certo, lo avrebbe fatto diventare finalmente ricco.

“Mi trovo qui per formare una carovana per lo Scioa – diceva – Ho un carico di vecchi fucili a stantuffo in disuso da quarant’anni che dai venditori di armi usate, a Liegi o in Francia, valgono 7, al massimo 8 franchi, al pezzo. Al re dello Scioa, Menelik II, li venderò a una quarantina di franchi.”

Franzoj conosceva i versi di Rimbaud, ma gli ci volle un po’ per realizzare che quel trafficante d’armi, neppure troppo onesto, era la stessa persona che Paul Verlain definiva un genio; non sapeva che aveva abbandonato Parigi otto anni prima, dopo aver fatto a pezzi tutti i canoni della poesia e averli rimontati in qualcosa di diverso, di rivoluzionario.

Da allora di lui non se ne seppe più nulla, ma furono in pochi a lamentarne l’assenza.

I suoi maestri parnassiani, che avendolo tra i piedi rischiavano di trovarsi trasformati, dall’oggi all’indomani, in vecchi arnesi della retorica rimata, tirarono un sospiro di sollievo quando sparì.

“Scolpisci, lima, cesella; che il tuo sogno fluttuante si sigilli nel sasso resistente!” Diceva Théophile Gautier, il Gran Maestro che teorizzava l’arte per l’arte, fine a sé stessa, pura sagra della bellezza.

Altro che scolpire lavorando di cesello e di lima, rispondeva Rimbaud, altro che sagra della bellezza: “Si tratta di fare l’anima mostruosa, come un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi; bisogna farsi veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi.”

Persino sua madre si dovette sentire in qualche modo sollevata dall’uscita di scena di un figlio così pubblicamente scandaloso, che andava finalmente a insabbiarsi tra le lande desolate della Somalia e l’altopiano fratturato dell’Etiopia, lontano dall’amabile, rozzo e incolto perbenismo della sua cittadina delle Ardenne.

Nei giorni di Tadjoura tra Rimbaud e Franzoj nacque una vera amicizia.

Ugo Ferrandi, compagno di viaggio di Franzoj, racconterà che li vedeva spesso “impegnati in lunghe discussioni letterarie, dai romantici ai decadenti.”

Per quel che si sa, questa fu l’unica volta, nella breve vita africana, in cui Rimbaud tornò a parlare di qualcosa che apparteneva al passato.

Dalla cassa su cui erano incise le sue iniziali prendeva mazzi di fotografie e taccuini dai quali leggeva poesie che raccontavano la sua Africa, le donne etiopi, la luna di Harar.

Solo dopo il rientro in Italia Franzoj scoprì che Rimbaud non aveva pubblicato nessuno di quei versi e si rese conto dell’unicità dell’incontro, del privilegio che gli era stato concesso.

Nel 1891 il poeta morì per un tumore al ginocchio: aveva 37 anni e la sua fama si dilatò fino a farlo diventare uno dei più grandi dell’800.

Franzoj attese inutilmente l’uscita degli scritti africani.

La cassa era scomparsa, persa lungo il tragitto che avrebbe dovuto portarla in Francia, dimenticata in qualche magazzino tra Harar e Aden.

Passò anni cercando di organizzare una spedizione per ritrovarla, ma le autorità italiane gli impedirono di tornare in Etiopia.

A un uomo dal carattere spigoloso, capace di reagire d’istinto a ogni ingiustizia, che non sopportava i malonesti e i lacchè, non si poteva consentire di andare in luoghi nei quali il governo vagheggiava ambizioni coloniali.

Non ci si poteva fidare di un cane sciolto, di un amante degli eccessi, di un rivoluzionario scapigliato finito spavaldamente in carcere per i suoi ideali; di uno che era stato capace di sfidare con un unico gesto cinque ufficiali dell’esercito regio e di batterli tutti in una sola mattinata; non era pensabile dar credito a chi aveva spinto all’infedeltà stuoli di donne ben maritate.

Venne messo in un angolo, dimenticato, anche se Giosuè Carducci e Cesare Correnti erano suoi estimatori, anche se era stato il primo e il più brillante tra gli inviati speciali della Stampa.

Negli anni in cui il giornalismo era prosa leziosa, lui scriveva per sintesi e per immagini:

“Massaua è il più sgradito porto del Mar Rosso. Ai tempi di Mosè questo era il mare prediletto da Dio. Ora Dio l’ha dimenticato. Tutte le 10 piaghe d’Egitto sono venute qui a lasciare parte delle loro miserie. Caldo acrobatico, 40 gradi all’ombra, afa, zanzare, vento e noia, e l’amministrazione egiziana più fastidiosa del vento Kamassin! Strade difficili, torrenti impetuosi, vegetazione superba, fauna svariatissima, storie sventurate, soli splendidi e miti, notti andalusiane, acqua fredda come il ghiaccio, fame inesauribile come la bontà di Dio, profumi inebrianti, bazi-buzuck manigoldi idem, idem come da Kalameda. Se si vuole aggiungere ad ogni costo qualche cosa si dice che gli abiti degli indigeni andavano, mentre mi inoltravo, semplificandosi a vista d’occhio, tanto che uomini e donne finivano a mostrare ciò che il buon Dio nostro, ma soprattutto le nostre questure, vogliono assolutamente si tenga celato.”

Era un grande Franzoj!

Fu l’ispiratore di Emilio Salgàri che, poveraccio, schiavizzato per poche lire dal suo editore, in sedici anni diede alle stampe 84 libri e bevve 5.844 bottiglie di Marsala senza muoversi da Torino, rispettando con masochistico rigore l’impegno contrattuale di consegnare ogni ventiquattro ore tre pagine pronte per la stampa: 17.532 pagine in sedici anni.

Erano le 10 e mezza del 13 aprile 1911, giovedì di Pasqua, e Augusto Franzoj, seduto sotto l’albero in cima alla collina, non ripercorse affatto il cammino nostalgico del suo passato: guardò Torino per l’ultima volta senza provare alcuna emozione, salutò con un infantile rimpianto il suo ultimo sogno, la cassa di Rimbaud, poi, sospirando, puntò le due pistole alle tempie, tirò simultaneamente i grilletti e i revolver americani eseguirono impeccabilmente il compito per cui erano stati creati.

Le pallottole incrociarono le loro traiettorie al centro del cervello poco prima di fargli esplodere la scatola cranica.

Salgàri si ispirò a lui anche quando, finalmente, decise di sciogliere il contratto con il suo editore: 12 giorni dopo andò armato di rasoio nel boschetto della Madonna del Pilone, a 4 chilometri dalla collina scelta dall’amico, e fece seppuku come un samurai per poi squarciarsi la gola. Nulla a che vedere con il gesto estremo d’avanguardia, senza fronzoli, senza rituali, di una testa che esplode in direzioni opposte con moto uniforme per creare il massimo della scapigliatura.