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brevi racconti sempre sull’ampio tema del viaggio inteso come esperienza di vita

Appoggio, prete,padre

guardi nello specchietto retrovisore, quella macchina è troppo vicina, vorresti essere mezzo km indietro, ma capisci che sarebbe inutile, non ti rimane che guardare e raccontarti che ne sa abbastanza per cavarsela. E’ li che ti sorprendi a sperare di avergli detto e mostrato tutto quello che deve sapere, basta poco per far vacillare certezze, costruire angosce.

” Non importa quante volte è andata bene, basta una, una volta soltanto e sei incollato a terra come un tappeto di linoleum, piatto inerte, possibilità di farcela ZERO”.

Cominci a dubitare della scelta, forse un po’ estrema “perché un enduro? alto, pesante, difficile da manovrare nel traffico, perché diavolo non  uno scooter. Ma certo io mi barrico dietro certezze infondate , un enduro è più sicuro, deve imparare a guidare una moto con le marce, è un uomo… ma chi me lo ha detto che è +sicuro?”

Adesso cominci a pensare che forse non ne sai abbastanza, che avresti dovuto documentarti meglio.

Sono episodi come questo che ti fanno pensare che siamo sempre alla ricerca di un appoggio, un prete, un padre, un capoufficio, un animatore…Uno…uno che ci dica se facciamo bene o male, che stia dalla nostra parte, che ci metta una buona parola, che ci rassicuri con una pacca sulla spalla, ma anche che ci tiri un bel calcio nel culo quando troviamo mille scuse.

E’ x questo che quando vedi il messaggio sulla posta “posso giocare con curiosità e discrezione” ci caschi x l’ennesima volta e rispondi esattamente come ti senti di rispondere “si, se 6 originale”

Ti torna in mente quel passaggio del libro che stai leggendo ” il vuoto, quello vero, fa paura a tutti, perché è troppo poco, allo stesso momento immenso per essere riempito; un cassetto vuoto di un albergo lo riempi di calze e di mutande ma se apri il cassetto in cui tenevi una scatola con i risparmi di una vita e la trovi vuota, quel vuoto è troppo poco ma è anche immenso, per essere riempito”.

Quel vuoto assurdamente vuoto che mostrano le tue risposte, I tuoi atteggiamenti così sprezzanti, certo tu pensavi di dire la cosa giusta, non ti sarebbe venuto in mente altro perché speri sempre in chi ha voglia di scoprirti e di scoprirsi, che sappia usare le parole, che abbia voglia di giocare. Invece le domande che oggi vanno sul mercato dei social sono piene di doppi sensi, cariche di mielosi dinieghi, giardini dell’inutile, sterile formazione di pagliericcio pre accoppiamento…e infatti “allora lasciamo stare” è stata la risposta.

“Il pacchetto in offerta ha delle cose interessanti e altre…”altre che non ti interessano, se quelle che non ti interessano sono superiori di numero e quelle che ti interessano sono di qualità appena sufficiente, allora non ti interessa di riempire quel cassetto d’albergo, tu cerchi quella scatola vuota che profuma ancora di meraviglia e di desiderio, di sogni e di avventura.

Tu vuoi il vuoto, quello vero, quello che è troppo.

E magari separare gli oggetti e le azioni che ti hanno portato a scoprire quel vuoto,  ricordarti con precisione ogni dettaglio che ti ha portato li come se la vita fosse un mazzo di carte da gioco nuovo ancora da mischiare, che potesse in qualsiasi momento esser ricomposto in quell’ordine prestabilito che sono le scale e i colori.

E ti tornano in mente parole di uno che non hai conosciuto, ma di cui ti hanno parlato molto, quasi senti nostalgia, nostalgia di non aver mai potuto incontrarlo:“Descrizione da un dialogo con Paolo Lucarelli:Noi (alchimisti) abbiamo, prescindendo da tutte le regole e regolette, che cambiano da cultura a cultura, un sistema specifico molto preciso ed è la quiete interna. Puoi ingannare gli altri ma non te stesso, perché lo sai. La quiete dipende da una infinità di cose, dalla tua cultura, dalla religione, dagli insegnamenti. Se tu sei in quiete tutto va bene, anche tu stai bene. Questo è un insegnamento che trovi dappertutto, è molto vecchio. Però la cosa fondamentale è un’altra, cioè non è che puoi decidere tu le cose che disturbano la tua quiete, perché ormai, alla tua età, hai una serie di vincoli che dipendono dalla tua educazione, e dalla vita che hai fatto. Senza rendertene conto ci sono cose in cui credi, e cose che reputi sbagliate, che fanno parte della tua intima essenza. Allora cercare di arrivare a liberarsi completamente dai propri pregiudizi è più faticoso e lungo che non accettarli serenamente e gestirseli, tanto poi se ne vanno da soli. È quello che spiego in termini operativi. Cercare di purificare al massimo i materiali all’inizio, come fanno alcuni, non serve a niente, perché durante l’opera la materia si libera da sola delle sue impurezze. Mettili dentro (al forno) come viene, certo decentemente puri… poi ci pensa lei (la natura) a eliminare le impurità. Questo vale per l’operatore, per l’artista. La natura fa lei le cose! Non le devi fare tu. Non puoi, non devi sostituirti alla natura”.

Un rumore di gomma sull’asfalto ti riporta in un istante al presente, il pensiero si blocca.

Guardi dallo specchietto retrovisore della vespa e ti costringi a tenere gli occhi aperti anche quando il furgoncino lo stringe e la macchina davanti frena.

Non puoi essere ovunque, a proteggere o proporre, per dargli una pacca sulla spalla o un calcio nel culo. Devi farti da parte, aspettare che la natura racconti con la sua casuale precisione, ciò che è pronto o quanto è acerbo.

Le proporzioni, il dosaggio, sono veramente il tutto di una ricetta di cui non basta conoscere gli ingredienti, ci vuole la giusta posologia: diluizioni, tempi e modi di somministrazione

Questa, lo sai , è la differenza tra il lettore e l’operatore, colui che facendo ha acquisito la manualità, la conoscenza, insomma l’esperienza diretta del forno o della natura, che forse simbolicamente o di fatto sono un unica cosa..

“Ci sta mettendo troppo”, senti, o ti sembra di sentire, il rumore del pneumatico anteriore che si punta, quante volte gli hai detto che al massimo si può frenare con entrambi ma da solo va usato il posteriore di freno?

Mette una gamba a terra gira la testa per vedere se ha ancora spazio di manovra “ecco” pensi “adesso non accelera abbastanza  e che diavolo fa la bionda sul suv, dove diavolo guarda, ma lo sa a cosa serve il retrovisore?” qualche quintale di metallo ha impallato la tua visuale, e forse è proprio quello che vuoi -non vedere ciò che accade-  Guardi il semaforo, è rosso, sono tutti in fila aspettando di girare a sinistra, ma il semaforo è sempre rosso, forse il tempo si è fermato, come in un incantesimo, un dio buono ha sospeso il tempo perché tu non debba sapere ciò che accadrà dopo.

Il semaforo è verde, la coda si muove, il tuo cuore batte veloce e all’improvviso lui è al tuo fianco, molto + alto di te, molto più forte e molto + maturo di quel che pensavi: “mamma ti aspetto dal benzinaio” dice passandoti di fianco. Alzi lo sguardo dallo specchietto e vedi la strada e i suoi abitanti, tutto a posto, nessuno si è fatto male il tempo, almeno questa volta, non si è fermato.

L’Isola della Reunion

La Terra della Distruzione

Quando nell’autunno del 1153 il geografo arabo Al Sharif el-Edrissi, vide davanti alla prua del suo dhow quello scoglio che imprigionava le nuvole in viaggio dall’India verso l’Africa meridionale, pensò che aveva un aspetto poco rassicurante e si avvicinò con grande prudenza.
Consultò una rozza carta nautica che risaliva a più di un secolo prima, tracciata dall’ammiraglio della flotta del re tamil Rajaraja Chola, e guardò con diffidenza ancora maggiore le onde che si frangevano contro la barriera corallina, le rocce, i picchi coperti da nuvole plumbee, il fumo denso che saliva fino a nascondere il sole.
Ci sarà pur stata una buona ragione se i tamil a quello scoglio avevano dato il nome di Theemai Theevu, Terra della Distruzione.
Al Sharif el-Edrissi non ci perse molto tempo, gli bastarono quattro giorni per circumnavigarlo e, tornato al punto di partenza, disegnò un cerchietto nero sulla sua mappa a 21 gradi a Sud dalle equatore e a 700 chilometri a Est del Madagascar, lungo la rotta tra l’India e il Capo di Buona Speranza, al centro della fascia su cui corrono i terribili cicloni tropicali, e lo chiamò Dina Morgabin, Isola dell’Occidente, a occidente di non si sa cosa.
Una settimana dopo, sbarcato al porto di Zafiraminia, considerò quel piccolo cerchio quasi fosse una macchia d’inchiostro, del kohl caduto mentre si truccava gli occhi, e venne dimenticato per un lungo, lungo periodo.
L’isola della Reunion si difende anche in questo modo, mostrandosi impervia e inospitale; se la si incrocia arrivando dal meridione non offre certo buoni approdi: imponenti pareti di roccia vulcanica inquietantemente scure, trasformate dalla violenza del mare in falesie
verticali, ne fanno una fortezza naturale inavvicinabile.
Passati tre secoli, quello scoglio che affiora nel mezzo dell’oceano divenne un punto di transito dei navigli portoghesi in viaggio verso l’India, ma appariva talmente insignificante che le loro carte nautiche lo ignoravano.
Nel 1504, sulla caravella comandata da Diego Fernandez Peteira, un giovane ufficiale di rotta, dovendo prender dimestichezza con l’uso dell’astrolabio , ne rilevò le coordinate e le segnò sul giornale di bordo. Era il 9 febbraio; dovendo dargli un nome ed essendo venerdì, pensò di chiamarlo Sextafeira, ma alla fine scelse Santa Apollonia, la santa del giorno, patrona dei dentisti.
Il nuovo nome non servì a renderla più attraente; l’isola rimase ancora disabitata per più di un secolo, fino al 2 ottobre 1654, giorno in cui il francese Antoine Couillard sbarcò in una baia del nord ovest con due suoi connazionali, cinque malgasci, cinque vacche, un toro,
due maiali, alcuni volatili e delle piante di tabacco.
Da quel momento divenne un pezzo di Francia, che cambiava nome ad ogni terremoto istituzionale: con Luigi XIV venne battezzata île Bourbon, île de la Reunion durante gli anni della Rivoluzione, île Bonaparte con Napoleone.
Gli abitanti si moltiplicarono e si adattarono al suo carattere un po’ scontroso: terra di cicloni, di maremoti improvvisi, con un vulcano che riesce a trasformare in rogo persino l’acqua dell’oceano e piogge tanto intense da non avere pari in nessun’altra parte del
mondo.
Quel “quasi niente” nell’oceano, non più grande di Parigi con la sua periferia, è un piccolissimo continente: lungo le coste del nord ci sono conche fertili e vallate rigogliose tra montagne che trasudano acqua, ma basta percorrere cinquanta chilometri e, arrivati al
confine Sud, si scopre la siccità, con le nuvole bloccate dai massicci dei Cirque de Mafate, Salazie e Cilaos.
E se a livello del mare la temperatura non scende mai a meno di 27 gradi, sui monti vulcanici si finisce sotto lo zero: alla Reunion, viaggiando in auto per tre ore, si può passare dal caldo oceano tropicale alla neve del Piton des Neiges, fino ai fiumi di lavanincandescente del Piton della Fournaise.
Un luogo anomalo con una storia anomala.
Il primo nucleo di residenti trovò solo qualche pacifico animale che per millenni aveva vissuto indisturbato, tanto da diventare geneticamente e morfologicamente incapace di difendersi.
Fu il caso del dodo, un grasso e pigro uccello che non sapeva più volare, con un’aria tutt’altro che intelligente, il cui destino divenne quello di facile preda per gli ospiti. Non che la sua carne fosse cibo prelibato, i marinai olandesi nel millecinquecento lo avevano
battezzato “Uccello Disgustoso”, ma era comodo da prendere, almeno quanto una mela dall’albero, e questo fu sufficiente per portarlo all’estinzione.
Oggi la Reunion è una meravigliosa isola, forse un po’ troppo abitata.
Grande quanto un terzo della Corsica, con poco meno di 800 mila abitanti, dal 1946 è una Regione d’oltremare della Francia, un frammento politico e amministrativo del Vecchio Continente tra Africa e India, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta: uguale trattamento economico dei lavoratori francesi, uguale costo della vita (forse addirittura più cara), identici diritti per servizi sociali e assistenza sanitaria.
L’Unione Europea la considera regione “ultraperiferica”, sia per ragioni di distanza sia per lo sviluppo del sistema produttivo, e per questo interviene con consistenti aiuti finanziari, tanto che, pur essendo lontana dall’autosufficienza, gode di un benessere piuttosto
diffuso.
Non c’è nessun altro luogo nel raggio di 5 mila chilometri in cui la qualità della vita sia così elevata, benché le uniche voci attive nella bilancia commerciale riguardino la produzione della canna da zucchero, con i suoi derivati, e della vaniglia. Il turismo, nonostante le straordinarie bellezze naturali, a causa dei prezzi piuttosto impegnativi e della grande concorrenza delle vicine isole Mauritius e delle Seychelles (sicuramente più economiche) stenta a decollare.

Melange alla Reunionese

Bisnonna nera e bisnonno bianco, nonno meticcio e nonna bianca, genitori entrambi bianchi; lui, il primo figlio, con una moglie cinese incinta, suo fratello tiene sottobraccio la fidanzata, una ragazza di cui è impossibile immaginare la provenienza, sembrerebbe orientale se non fosse per gli occhi azzurri.
Non è raro incontrare famiglie così variegate passeggiando in una delle città di questa isola, perché alla Reunion non esiste una razza autoctona ed è assai problematico seguire i dettami del “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. Fino alla metà del ‘600 era completamente disabitata, poi sono arrivati i francesi, i malgasci, i neri dall’Africa continentale, i gujarat e i tamil dall’India, i cantonesi dalla Cina, gli arabi dallo Yemen e da Zanzibar, e il risultato non è quello di una popolazione multietnica: gran parte dei reunionesi sono, individualmente, multietnici, con un albero genealogico che abbraccia tre continenti e gran parte delle culture esistenti.
Questo è uno dei rari posti al mondo, forse l’unico, in cui non ha senso parlare di integrazione razziale perché, anche nella piramide sociale, si passa senza soluzione di continuità dal bianco al nero, dai capelli chiari a quelli scuri, dagli occhi a mandorla agli occhi azzurri. Difficile essere razzisti quando in famiglia si hanno antenati di provenienze diverse, impossibile essere xenofobi se tutti, ma proprio tutti, ricordano ancora il proprio avo “straniero”.

Il tesoro della Poiana

Alle 5 del pomeriggio di venerdì 7 luglio 1730 il boia infilò il cappio al collo del pirata Olivier Levasseur, soprannominato La Buse, la Poiana; tutti gli abitanti di Saint-Denis, poche centinaia di persone, furono invitati ad assistere a quella esecuzione. Mentre saliva sul patibolo, La Buse si strappò la collana e la lanciò a quella piccola folla urlando: “Mon trésor à qui saura comprendre !” (Il mio tesoro è di chi saprà capire! ).
Appeso alla collana, in un contenitore di cuoio, vi era un foglietto su cui aveva scritto un crittogramma di 17 righe: era la mappa cifrata del luogo dove aveva nascosto le sue ricchezze.
Poco prima aveva detto alle guardie che lo scortavano: “Con quel che ho qui potrei comprare l’intera isola”.
Il pirata non mentiva: in 14 anni di folgorante carriera era riuscito ad accumulare un’enorme fortuna, pari a quella di un re.
Il grande colpo della sua vita lo mise a segno quando aveva 30 anni, il 17 aprile del 1720.
Navigando non distante dalle coste dell’isola della Reunion, si trovò nel mezzo di una tempesta e decise di far rotta verso il porto di Saint-Denis. Arrivò che era ancora notte, la luna quasi piena illuminava una caracca portoghese a quattro alberi che aveva trovato rifugio nella baia: era la Nossa Senhora Do Cabo.
All’alba la attaccò.
La Buse, la Poiana, si lancia in picchiata sulla preda lasciandola senza scampo; i suoi uomini vanno all’arrembaggio e con un’azione fulminea si impadroniscono di una nave da 800 tonnellate, armata con 72 cannoni, che ospita Luís Carlos Inácio Xavier de Meneses, conte di Ericeirae, marchese di Louriçal, vice-governatore delle Indie Orientali, e l’arcivescovo di Goa, Sebastian de Andrado, ma, soprattutto, trasporta un tesoro dal valore incommensurabile in pietre preziose, oro e argento, che oggi viene valutato in più di due miliardi di euro.
Olivier Lavasseur fa sbarcare gli ospiti e l’equipaggio, per salpare con la Nossa Senhora Do Cabo e il suo carico prezioso, di cui si perde ogni traccia.
Per i successivi 200 anni scompare anche il crittogramma lanciato da Lavasseur alla folla il giorno della sua impiccagione, fino a quando, il 15 luglio del 1934, nell’edizione domenicale del Milwaukee Journal, quotidiano del Wisconsin, viene pubblicata un’intervista a Charles de la Roncière, funzionario della Biblioteca Nazionale di Francia, che afferma di possedere il crittogramma e lo rende pubblico.
Da quel momento inizia una caccia al tesoro che ancora oggi continua in un’area piuttosto vasta dell’oceano Indiano: Isola della Reunion, Seychelles, Rodrigues, Madagascar, Mayotte, Isola di Sainte-Marie.
Ecco il crittogramma.

La Diagonale dei Folli

Centocinquanta chilometri di saliscendi tra foreste tropicali, pietraie e crateri vulcanici: il Grand raid de la Reunion è una delle più dure e delle più lunghe maratone al mondo.
Ogni autunno, da 17 anni, duemilacinquecento persone provenienti dai cinque continenti si ritrovano a Cap Mechant, nell’estremo Sud dell’isola, per percorrere quella che viene chiamata “La diagonale dei folli”; i migliori chiudono la gara in poco più di 22 ore, a una media di 7 chilometri l’ora, con poche soste e neppure un minuto di sonno, gli ultimi ci mettono 2 giorni e mezzo; il 40% dei partecipante non riesce a tagliare il traguardo, perchè
vinto dalla stanchezza o vittima di una caduta.
Il via viene dato alle due del mattino nello stadio di Cap Mechant, all’estremo sud dell’isola, sulle rive dell’oceano.
Dopo un breve tratto di pianura inizia il susseguirsi di salite e discese: a 30 chilometri dalla partenza si è a 2350 metri di altitudine, sulla cresta del Piton de le Fornaise, il vulcano attivo della Reunion, poi si passa a 900 metri per risalire oltre i 2000 e ridiscendere fino al mare.
La gara si conclude a Saint-Denis, capoluogo dell’isola, nell’estremo Nord.

L’edizione del 2011 si terrà dal 13 al 16 ottobre.

l’odore del cuore

Con l’orecchio appoggiato sul petto sentiva questa musica ritmata, piena e sensuale, avrebbe voluto racchiudere quella emozione tattile e sonora in una bolla di vetro per romperla come un guscio d’uovo e versarla all’occerrenza in una delle tante giornate vuote e senza senso. Non era un semplice battito era un orchestra racchiusa nella sua cassa armonica naturale. Lui le accarezzava I capelli scostandoli con piccoli gesti dalle guance, perso nelle sue privatissime emozioni. Le emozioni che facevano trionfare il cuore nel suo grandioso pulsare.
Forse quando uno non sa se sta bene o male, se è d’accordo oppure no, se gli piace sentire la mancanza oppure farebbe volentieri a meno, forse quando non si riesce a trovare un giudizio estetico, caratteriale o generale, forse , ma forse no, “ti stai innamorando?”. Mentre si faceva queste domande preparava la colazione ed era perfettamente felice, nemmeno una cosa avrebbe cambiato di quel momento, anche se felicità non esprime esattamente ciò che provava, forse la parola esatta era in equilibrio.
L’equilibrio è un punto dinamico tra il cadere e il cadere, aveva detto una volta un giocoliere in cima ad una grande palla in bilico su di una passerella in discesa. Quel particolare momento era un punto preciso , prima e dopo quel punto c’e’ tutto quello che non desideriamo, e il punto stesso godeva della massima visibilità sulla perfezione del momento, proprio per questa sua peculiarità di giacere precariamente tra un dirupo e un dirupo. Qualche attimo dopo lui aveva detto tra un po’ mi metto in marcia. Parole perfette, tempismo acuto.
Si erano incontrati per caso, una amico di un amica. Lui l’aveva notata per primo, lei + giovane di 10 anni, una bella donna o meglio una bella femmina, come lui stesso l’aveva definita. Lei lo aveva notato quella sera a cena, proprio alla fine, mentre stava per andarsene. Le aveva dato da accendere e si erano scambiati una battuta. Poi era capitato che si incontrassero per un lavoro, lui era disponibile e accogliente e lei gli aveva chiesto di uscire a bere una cosa e li avevano parlato fitto fitto e avevano riso.
Il giorno dopo erano andati insieme ad una mostra fotografica e di nuovo era stato incredibile. Il lavoro li aveva portati insieme qualche volta ancora ed era stato proprio dopo cena, finito di lavorare che lui l’aveva baciata sul cofano della macchina.
Poi si erano visti per andare al cinema ed erano finiti a letto, senza grandi preamboli, come se si conoscessero da tempo e fosse una cosa naturale, lo era, o almeno lo era stato per lei.
Al secondo incontro il padre di lui era stato ricoverato,
Gli incontri si erano diradati per forza maggiore e la prima volta che si erano rivisti dopo il funerale lei aveva notato questo brusco cambiamento della loro chimica.
“Meglio stare un po’ indietro con I condimenti” diceva sempre sua madre, “si può sempre aggiungere, ma togliere è diffcile”
Bhe la palla si è mossa e velocemente è rotolata, quando si cade è difficile tenere un atteggiamento composto, però si può scegliere una direzione e quella direzione, anche se difficile da accettare è l’unico senso che rimane, rimanere se stessi, acettare l’ineluttabile dinamica del prprio destino, cadere.
Forse solo una coincidenza temporale, ma dalla morte del padre la loro relazione aveva preso una strana svolta.Si poteva chiamarla così? sembravano troppe lettere e troppo significato. Era cominciato con l’odore, quell’odore che a lei era sembrato così speciale, era diventato aggressivo.
Anche lui era diventato aggresessivo, in senso passivo,per nulla disponibile, men che meno acogliente. Anche in una semplice chiacchera a proposito di fotografia esibiva un tono sprezzante, e si finiva per essere zittiti.
Poi quella sera, dopo cena lui le aveva chiesto se sarebbe rimasta, ma non come se fosse interessato a un si, piuttosto come se stesse cercando di capire a che tipo di seccatura si dovesse preparare.
Lei lo aveva guardato, e gli aveva chiesto di chiarire “vuoi che rimanga o vada?”
Lui le aveva risposto che il fatto che lei lo chiedesse gli faceva passare la voglia di manifestare il suo interesse e poi aveva aggiunto che comunque, il tutto era reso ancora + difficile dal fatto che non ci fosse tensione sessuale e che immaginava la cosa fosse reciproca.
In quel momento le si era rotto qualcosa dentro, ma se avevano passato la maggior parte del tempo in un letto, ma se era stato tutto un sospiro e parole che certamente non lasciavano intendere diversamente.
Ma peché l’aveva invitata a cena per poi dirle quello che le stava dicendo?
Forse avrebbe dovuto tirarsi indietro quando aveva sentito l’odore cambiare fino a diventare così ossessivo.
Invece quella sera era rimasta, aveva cercato di essere scherzosa, ma quando lui si era rifiutato di confrontarsi persino su stupidi temi di gioco, aveva mosso le gambe a compasso e mentre si alzava dal letto aveva detto “vorrei che sospendessimo le nostre visite”

Poi si era vestita, si era fatta fare un caffè. Lui si era appellato al progetto di lavoro che era stato l’occasione di incontro della sera precedente.
lei non era riuscita ad accettare il compromesso, o il pretesto, aveva invece tentato di spiegare che per lei c’era stato l’incontro, l’essere insieme e che l’energia era superiore al corpo e a quello che si poteva fare con I corpi.
Poi gli aveva detto “dammi speranza” e con quello intendeva solo dire “fammi capire che il messaggio è arrivato che non ti fermi all’apparenza” Lui aveva risposto “in teoria capisco e sono d’accordo, ma mettere in pratica…” Poi le aveva porto il cappotto e lei si era infilata nella porta, percorso il corridoio, preso l’ascensore come in caduta libera e per motivi che non le erano chiar,i aveva sentito che un pezzo dentro si era staccato, l’impatto della caduta, un buco, nel buco il vuoto “nel vuoto il suo uso”.