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xchè è come mi sento
Ho letto di te per caso e oggi per caso ho trovato questa.
La condivido con te…non so perchè! (?!)
VORREI SEDERMI VICINO A TE
Vorrei sedermi vicino a te in silenzio,
ma non ne ho il coraggio:
temo che il mio cuore mi salga alle labbra.
Ecco perché’ parlo stupidamente e nascondo
il mio cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore per paura
che tu faccia lo stesso.
Il mio cuscino mi guarda di notte
con durezza come una pietra tombale;
non avevo mai immaginato
che tanto amaro fosse essere solo
e non essere adagiato nei tuoi capelli.
Garcia Lorca
Mille sveglie ticchettanti
questa è una cosa molto difficile, non importa in che forma la debbo articolare, devo prima estrarla da me
the sea of the simulation
e se un segnale molto forte non servisse a raggiungere molte unità ma un unica unità molto, molto lontana?
Nel raggiungere quella controparte estrema, l’emittente sarebbe costretta a fare molto rumore, lasciando tracce incomprensibili di una comunicazione mirata a una moltitudine inconsapevole che recependo brandelli del messaggio si muoverà di conseguenza (causa effetto) creando di fatto, il destino di colui al quale il messaggio era diretto
No Time
No Space
another Race
of vibrations
the Sea
of the Simulation
http://www.youtube.com/watch?v=wJs1XJL-6S4
http://www.youtube.com/watch?v=HKSpX21AsSA
Natale senza Maya
un buco nel bozzolo
Brucia
Povera Italia, come direbbe Battiato, tra avviliti e corrotti non si salva nessuno e nessuno vuole prendersi a responsabilità di ciò che accade. Gli accusatori invece riempiono i giornali e le strade
Scheherazade
Tell me about the dream where we pull the bodies out of the lake
and dress them in warm clothes again.
How it was late, and no one could sleep, the horses running
until they forget that they are horses.
It’s not like a tree where the roots have to end somewhere,
it’s more like a song on a policeman’s radio,
how we rolled up the carpet so we could dance, and the days
were bright red, and every time we kissed there was another apple
to slice into pieces.
Look at the light through the windowpane. That means it’s noon, that means
we’re inconsolable.
Tell me how all this, and love too, will ruin us.
These, our bodies, possessed by light.
Tell me we’ll never get used to it.
Ascolto e taccio
Ascolto e taccio, ma l’ascolto non passa solo per le orecchie non transita solo per il cervello direi che l’organo più ricettivo è la pancia, ansia?
Più leggo e meno capisco, non ho veramente voglia di scrivere, lo faccio solo per cercare di ascoltarmi, non ho più nessuno con cui parlare, la trincea che ho scavato tutto intorno a me comincia a produrre I suoi effetti ed io galleggio pesante come una piattaforma petrolifera, produco una sostanza densa che mi sembra ingombrante vischiosa ed inutile come il petrolio.
Ho detto che mi sento inadeguata, ma non sempre, ci sono momenti in cui me ne dimentico? O sono momenti in cui faccio ciò che mi è connaturato?
Ho riposato sono molto meno stanca, ma a cosa mi serve? Mentre scrivo noto che il malessere di fa più evanescente, Cerco anche io un punto di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente?
No oggi Battiato non scriverebbe più così se mai cerco un punto di gravità dinamico che mi faccia vedere ogni cosa per quello che è invece di quello che è per me.
O forse quello che cerco è un punto al di fuori di me da cui contemplare me stessa mentre mi agito tra causa ed effetto all’unisuono cosciente del tempo e dell’eterno senza contrasti, in armonia che diviene armonia, dove gli attriti sono combustibile per il mio percorso e non sgradevoli fumarole che puzzano di incombusta inadeguatezza.
Dopo una giornata perfetta ci si sente angosciati e soli, l’angoscia di non poter replicare all’infinito ciò che sicuramente non potrà essere due volte uguale e che dalla perfezione potrà solo divenire via-via più imperfetto. Ma allora dove cercare quell’armonia in divenire?
Contrazione ed espansione, queste le regole dell’universo, perché mai dovrebbe essere diverso nel piccolo mondo a me sensibile?
“Mi sento banale” non direi, direi piuttosto scollata, come uno specchio tagliato in tanti pezzi perché ne servivano tanti per riflettere tutto quello che serve, ma lo specchio sempre quello è. I tanti pezzi fanno allo scopo, catturano le azioni che sono li in attesa di essere giustificate dall’ immagine che proiettano. E’ lo specchio a non avere più una superficie abbastanza estesa che lo manifesti come tale. Si trova pressoché disperso, ma non ancora, nutre la speranza di farcela a rimanere se stesso, uno specchio grande e luminoso, e ad accogliere il mondo che in lui si riflette per il quale si è tagliato in tanti piccoli pezzettini che presi singolarmente sono solo banali utili pezzettini.
Non so se si tratta di coraggio o piuttosto di destino, io sono orrificata da questa dispersione, la temo
Il principe felice di Oscar Wilde, una bella storia, ma è una storia triste, triste xché anche se dai tutto non è mai abbastanza. La privazione ci insegna che ciò che manca serve, ma ci insegna anche che molto di ciò che vogliamo e pretendiamo e superfluo. Questa forse è la proprietà del vuoto, rivelare la vera entità dell’assenza e quindi della presenza.
sopravvive il 15%
Thelistserve è un progetto universitario al quale tutti possono iscriversi
Una specie di lotteria dove chi partecipa potrebbe essee estratto per mandare una mail a tutti gli altri iscritti (io tra questi)
Il progetto è carino e spesso la gente è presa alla sprovvista, ho ricevuto ricette, consigli incitamenti, alcune mail erano interessanti altre …
Se mai vi venisse in mente di iscrivervi ne pubblico una qui di seguito
Potrebbe venire il vostro turno per comunicare una cosa importante ad un numero importante di persone che non avreste mai modo di incontrare
Dear Listserve,
I am not asking my question rhetorically. I am a doctor, and I need to know.
A “code” is an emergency that sends a large team of doctors, nurses, technicians and others to a patient who is unresponsive, not breathing, or pulseless. It is a frenzy of activity. Unless a designated representative of the patient says otherwise, the team springs into action and determines whether to begin CPR. The process involves much more than pounding on a chest for a minute, and that by itself can be violent. Ribs are broken, and the patient rocks from side to side from the force required. Orders are yelled across the room. And if the patient does not begin breathing spontaneously soon, they may put a tube down his trachea and connect him to a machine that will breathe for him.
On television, the survival rate when something like this happens is close to 50%. In reality, a patient whose heart stops has about a 15% chance of surviving to leave the hospital. Survival does not guarantee quality of life. There may be brain damage or other problems. This being said, an attempt at resuscitation is appropriate for many people–and for many others, it is not.
Your current state of health, age, and other factors affect your chances for a good recovery. Depending on how things go, breathing machines, surgeries, loss of functional capacity, or rehabilitation may follow. Think about this decision and discuss it with your family before you are hospitalized. Ask your doctor if you need help. “Five Wishes” is a good place to start.
T.
Denver, Colorado
lunarblue23@gmail.com
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centimetri di catena, un paio d’ali
the answer my friend is blowing in the wind
blu
é solo una bici- mi sono detta mentre la vedevo sporgere dal camion, poi ho allungato la mano e ho tolto il coprisellino. Una bici su cui ho appggiato il mio deretano x anni, a cui ho tenuto come se fosse l’unico oggetto posseduto. Una bici a cui ho delegato la rappresentanza di un’amicizia
Quando mia madre si è trasferita da trezzano a milano, a casa mia sono finite tutte le cose che non poteva dare a nessuno ma che le dispiaceva di buttare. Tutte le cose di qualche valore sono andate a casa di mio fratello. Il motivo è che mia mamma ama gli oggetti + di quanto ami le persone, quindi li da a mio fratello x assicurarsi che vengano ben custoditi, non xchè ami + lui. Lei non se ne rende conto ovviamente e qundi non la giudico, ma questo non vuol dire che le sue azioni non mi facciano soffrire
Di recente le ho regalato una caffettiera d’argento, che le piaceva molto e che a parer suo stava inutilmente mal esposta a casa mia
Questo l’ha resa molto felice. In questo dono c’è un contenuto, io ho fatto quello che la rende + felice, non quello che rende + felice me, xchè x me quella caffettiera d’argento vale molto meno della mia vecchia moca da due.
La bici e il fatto che l’ho cavalcata per tutti questi anni spero che sia per chi la porta via un modo per ricordarsi di me, si è certamente così
Nel mio corpo astrale scoperò con chi mi pare( storie di sesso e molto altro)
C’era un casino bestiale in questo sogno, giuro che non ricordo veramente i fatti ne le persone, ma tutto era così familiare, un dettaglio lo rendeva speciale
Il dettaglio aveva un colore, blu e una forma, un insetto. Ma non un instto qualunque, di quelli che ti puoi immaginare simile a uno scarafaggio, un acaro o una cavalletta
era la rappresentazione grafica animata di uno pseudo virus in dimensioni giganti.
Scivolava su sfere gelatinose che rilasciavano piccole bolle solide e cercava un passaggio sul mio corpo. C’era quasi riuscito quando in un movimento parzialmente conscio, scivola ma rilascia delle bolle una delle quali mi risale per il naso. Poi mi sveglio.
Quella mattina, dopo aver prestato sevizio come conduttora di pedibus, decido di andare a ritirare il libretto scolastico di mio figlio maggiore, sono accompagnata dalle chiacchiere di altre mamme, i cui figli frequentano tutti lo stesso istituto elementare di mio figlio minore. Sono abbastanza concentrata su quello che dicono perchè il mio progetto ha come obbiettivo di regalare a mio figlio compagnia sulla strada verso la scuola, soprattutto in odore di prima media, dove dovrà comunque andare e tornare da solo.
Spesso le cose più innocenti, e fatte con le migliori delle intenzioni, degenerano in invidia e pettegolezzo, quindi ascolto con attenzione e doso le risposte, insomma sto lavorando e cerco di essere “professionale” .
– a me non è arrivata notizia di questa cosa, dice una di loro, e subito le fa seguito, nemmeno a me figurati a me l’ha detto..
– In tutta franchezza, esordisco con un sorriso sulla faccia e le piume abbassate, non si tratta di nessun progetto, io Carla e Cinzia abbiamo messo insieme i nostri 3 figli perchè possano rendersi autonomi nell’andare a scuola. Ovvamente li accompagnamo per qualche giorno, alcune mamme ci hanno seguito e ci hanno chiesto, così è nato un pedibus autogestito, senza la volontà di includere o escludere nessuno…
Si rilassano e cominciano a richiacchierare tutte insieme, non c’è più il pettegolezzo o pietra dello scanalo, non c’è + un capro espiatorio che potrà prendersi la colpa del fatto che tizia e caia non sono state coinvolte…
All’altezza del comune, saluto l’ultima delle mamme e raccolgo un complimento fatto con garbo: “facciamola davvero questa pizza, ho notato che da quando facciamo così le cose funzionano davvero meglio”
Code di pensieri fanno un po’ di fatica a trovare continuità. Mentre cammino, quella sfera blu sembra farsi spazio dentro di me; chi sa cosa rappresenta il colore blu, le sfere…l’insetto lo so da me cosa rappresenta!
Infilo la porta della guardiola- in che classe è suo figlio?
seconda liceo, rispondo come un automa,
La bidella sorride inarcando il sopracciglio e chiedendosi se sono dotata di un cervello – in che sezione?
Abbozzo un sorriso, scendo sulla terra e gurdandola implorante negli occhi in un inutile sforzo di memoria, riesco a partorire la frase -forse nella e o nella d
-Come si chiama di cognome suo figlio, aggiunge cercando di mettere l’accento sul COGNOME. ma io sono proprio presa dal blu di questo corpiciattolo che ha lasciato un suo uovo dentro di me e ripeto il nome e poi, solo poi, aggiungo il cognome.
Ci dev’essere gente che sogna marziani tutte le notti e che viene a ritirare il libretto scolastico dei propri figli come se niente fosse. Io non sono certo il peggiore dei casi, la bidella sembra saperlo, molto gentilmente mi porge un foglio di carta e mi fa apporre due firme.
Torno in strada e un piede dopo l’altro sto andando verso lo studio del mio amico/medico. Sono in buona e voglio condividere questo momento anche per mettere a pari certe schermaglie per e-mail, e poi chi sa se mi sentirò altrettanto bene un altra volta che passo di qui? Gli avrei mandato un sms o insomma l’avrei avvisato, ma sicuramente non oggi, quest’uovo blu mi dirige come una puntina simbiotica
L’aria che respiro è rarefatta e tutto mi sembra speciale come se accadesse per la prima volta. Le case hanno contorni definiti, vedo tutte le insegne e ognuna mi accende un ricordo . Con le mie gambe e i miei pensierini che seguono sferici e blu, suono al citofono, il portone si apre senza risposta, come al solito, non perché lui sappia chi è, solo perché non risponde e basta e forse crede di sapere sempre esattamente come andranno le cose, quindi anche chi suonerà al citofono nei prossimi cento anni.
Salgo le due rampe di scale ma non sono qui e soprattutto i miei pensieri, non sono qui. Apro la porta a vetri, è tutto come tre settimane fa; a lui non piacciono i cambiamenti, anche quando rinnova, rinnova sempre conservativo. In sette anni che frequento lo studio non ha mai cambiato la disposizione di un singolo oggetto. Sospetto che se una cosa diventa lisa o obsoleta, la sostituisca con l’oggetto + simile o se possibile, uguale.
La porta dello studio è quasi chiusa, tendo l’orecchio per capire se dentro c’è qualcuno. Non sento voci e nemmeno rumore di tasti digitati, evidentemente aspetta qualcuno e si aspetta che questo qualcuno varchi la soglia, ora sembro così precisa ma è solo un ex post. Non saranno passati 30 secondi dalla mia entrata che ho deciso di uscire senza lasciare traccia del mio passaggio. Mentre sto per schiacciare il pulsante che apre il portone da dentro, questo scatta da solo e sulla porta incontro una mia carssima amica
– accompagnami devo ritirare una ricetta
–no scusa ma non posso, sono salita e non sono entrata, se vuoi ti aspetto qui
torna con in mano un foglio e la vedo perplessa mi chiede
-ma su c’era qualcuno?
-no ma la porta era socchiusa, tipico di quando sta facendo qualcosa e non vuol essere disturbato ma attende qualcuno
Andiamo a prendere un caffè insieme e facciamo una strada che altrimenti , da sola, non avrei fatto. A metà strada, sulla piazza del duomo, la vedo; ha il capo basso i capelli raccolti in una coda rimedio dell’ultimo minuto. E’ vestita in qualche modo, con jeans e camicia troppo stretti, anche lei mi ha visto, le faccio un sorriso e la saluto con la mano e pronunciando un ciao grazioso.
Io sono contenta è una bella giornata di sole, lei è afflitta e compressa o così mi sembra mentre rimbalza sulla sfera azzurrata di un immaginario scudo che l’ovetto blu sta producendo tutto intorno a me.
Sta andando da lui e se mi avesse trovato anche solo sulla base del pianerottolo avrebbe pensato le cose peggiori e avrebbe avuto modo di scaricare su di me tutta la colpa della sua vita infelice.
Una sensazione di immediato appagamento, come il terzo pezzo gigante di toblerone che mi sto ficcando in bocca adesso.
Quando con la vespa ho scavallato l’argine quello stesso giorno, ho cominciato ad avere una sensazione di pesantezza, mi sono sentita debole e meschina, tronfia delle mie stupide false conquiste, di cui ho bisogno per sentirmi bene e meglio degli altri
“Spesso sappiamo quello che vogliamo, ma non possiamo volere quello che vogliamo”. Avevo archiviato questa frase da qualche parte, incerta del significato, della forza o della banalità.
Forse avrei dovuto fermarmi al primo pezzo di toblerone, affondo nell’eccesso, ho bisogno di sentire nausea per sentirmi paga e vorrei, vorrei tanto ma…
foto post “pakistan”
attraverso il Pakistan
http://www.lettera43.it/attualita/pakistan-armi-illegali-diplomatici-usa-fermati_4367553350.htm
Wild, Wild West. Compro la mia pistola
il mio ristorante
il ristorante di Tabata
Una capra felice
Wild west 2
Ancora dall Iran
produzione di armi
le tre volpi di Kalash
Se io fossi
se io fossi un animale sarei sicuramente una formica. Una formica classica come quella della fiaba, quella che lavora e si lagna degli altri che non fanno nulla e poi però d’inverno si fa carico della cicala. Non è la cicala ad aver bisogno della formica, ma il contrario.
“l’ultima volta che ho sbattuto la testa ho perso il 70%della mia coscienza”
Maratona popolare
La testa affondata nella mia spalla l’occhio un po cerchiato e quello sguardo così limpido, non ci sarebbe forse nemmeno bisogno delle parole per commuoversi e invece ci sono anche quelle e sono parole pulite, semplici e lineari,
ricorda che sei in piedi su un pianeta che si muove
entro dalla porta e subito so che lo troverò li esattamente come lo vedo spaparanzato in mezzo alla sua famiglia. anche lui sa ancor prima di vedermi e fa per alzarsi ma io non voglio attirare l’attenzione
“Honi soit qui mal y pense”
Subiendo al tren dos ojos te fijaron solo que sabès que para vos ya no es tiempo. El tren llega a la Nord, quizàs si està todavìa, Juan sos incorregible, no tenès salvaciòn, no aprenderàs nunca, olvidàs que la entrada en el embudo se debiò a una mirada que se encontrò con la tuya…
Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole
fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto
coraggio. Il coraggio di starsene soli come
se gli altri non ci fossero e pensare soltanto
alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente
se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni,
bisogna morire. Poi dopo morto, se hai
fortuna, diventi qualcuno.”
(da La casa in collina, 1948)
Discendenze
E’ brutto sentire la distanza che si allarga in termini di comprensione e affinità con la propria madre negli anni, ho sempre pensato che crescendo e invecchiando succedesse il contrario, forse nella maggior parte dei casi è così. Mio padre è sempre lo stesso e quindi negli anni non mi sorprende ne mi delude più . Percepire invece mia madre più distante, sempre più diversa da me mi ferisce, non so bene perché . Forse perché è il modello cui mi sono sempre ispirata e vedere che non mi piace è doloroso. Eppure ha compiuto settanta anni per cui è il momento Dell accettazione, non delle critiche, forse da questo punto di vista sono io in ritardo, nonostante i miei 43 anni….
Spero che la tua clausura abbia momenti di gioia, un abbraccio.Ho dovuto accentare tutte le tue e. Sul telefonino “è” complicato rispettare gli accenti. Sarà per questo che mi sono resa conto di quante “è” ci sono in un messaggio così breve. Come se l’Essere fosse granitico e inamovibile, come se le cose non potessero mai + cambiare nella tua percezione. Forse x questo mi sono chiesta se “è” la morte a dare alla vita un valore assoluto. Quella morte che senti prossima perché l’età di tua madre ti fa pensare che è passato molto + tempo di quanto ne rimanga.Ho visto un film grottesco– the descendant – molto intrigante nella sua semplicità. Tra lacrime e risate mi sono chiesta cosa sia l’accettazione della morte. Non in teoria, non nei nostri momenti blu, ma nella realtà, quando devi pronunciare la parola che si riferisce ad una persona che è stata viva e il cambio di stato ci obbliga a vedere diversamente. Me lo sono chiesta nella posizione di chi quest’esperienza l’ha già fatta qualche volta senza accorgersi che l’altro rappresentasse l’ occasione di cambiare, di farcela, di salvarsi. L’altro che abbiamo cercato e nel quale abbiamo riposto chi bene chi male, la memoria e lo scopo della nostra vita. Perché senza l’altro nulla ha un senso, o così sembra pensarla la maggior parte di noi. E l’altro c’è fino a che il suo cuore batte, o fino a quando il suo cervello ragiona? o fino a quando ci può dire si o no? o fino a quando abitiamo entro lo stesso confine? fino a quando possiamo varcare il confine?
Come si parla a una pianta? come si comunica con un piccione?come ci si mette in relazione con un fantasma? Tutte situazioni grottesche perché in equilibrio tra “essere e non essere”E poi il gran finale: l’eternità, oppure Dio, La Creazione…ci sono molte definizioni per descrivere quel senso di smarrimento che proviamo se anche solo per un attimo ci rendiamo conto di chi siamo veramente: una caccola sull’orlo di essere starnutita …eppure un centro di energia , “di gravità permanente” oggi dentro un corpo di femmina in carne ed ossa, domani…il senso della vita mi sfugge
Mio suocero dice sempre che DOPO non c’è nulla e quando lo dice io lo guardo e penso ” eh come ti piacerebbe!”
il postino
Pavese
“Essere qualcuno è un’altra cosa, -dissi piano-
Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole
fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto
coraggio. Il coraggio di starsene soli come
se gli altri non ci fossero e pensare soltanto
Che lo abbia scritto proprio Cesare Pavese fa pensare ma è stata una scoperta casuale
Qualche giorno fa il mio parrucchiere mi ha riferito della conversazione avuta con un’altra cliente “mi diceva che aveva sentito un intervista ad un filosofo importante, il succo è che per come stanno andando le cose tra breve ci sarà una guerra, una guerra di quelle che ci farà retrocedere ad uno stadio inimmaginabile”
Un sogno da 50 euro
La mia gatta miagola incessantemente da qualche giorno, i gatti sono creature notturne. Due sere fa mentre uscivo sul terrazzo a prendere l’acqua minerale lei ne ha approfittato per uscire.
Dipende da tre cose
-Se una persona a cui hai già detto tante volte di non fare una cosa continua a farla- ho chiesto a mio figlio- tu cosa fai + spesso, le rispieghi o lasci correre?-
-dipende da tre cose- mi ha risposto-di che umore sono, se mi sta simpatica quella persone, quanto nei guai si può cacciare se non le spiego.-
-E allora quando io non capisco una cosa e tu e tuo fratello, a mie ripetute domand, rispondete “va beh”?-
-Ma quelle non sono cose importanti mamma-mi dice lui rendendomi evidente che mi sto soffermando pretestuosamente su un dettaglio irrilevante e poco filosofico.
Allora tra me penso che forse quando usiamo questi tre criteri in realtà stimo escludendo gli altri, ossia non solo quanto ci si possa mettere nei guai facendo una cosa che reputiamo sbagliata, e quanto si possano mettere nei guai gli altri, ma e anche se noi siamo l’altro con cui il soggetto testardo potrebbe mettersi nei guai
Un amica tempo fa mi raccontava di essere andata al bar e di aver chiesto un caffè, era il bar sotto casa, nel quale lei andava abitualmente, -Invece del solito caffè, + bicchierino d ‘acqua mi vedo arrivere solo il caffè. Lo sa che il caffè va sempre accompagnato da un goccio d’acqua?- fa lei. -Il barista precedente me lo serviva sempre così ed è una cosa che fa piacere. La gente va educate -disse a conclusione del racconto- altrimenti come fanno a sapere perché, se mai decidessi di farlo, ho cambiato bar.
Sorge un problema, l’estraneo , colui che ci conosce appena, notano ogni cosa che può mettere a rischio la propria posizione nei confronti dell’altro. Tal volte si arriva a fare pensieri assolutamente speculativi sul perché di un occhiata o di una risposta. Perché tutti vorremmo sempre essere nel giusto e siamo proni a scaricare sull’altro ogni cosa che non ci torna: -cosa gli avrò mai fatto per tirarmi una simile occhiatacci?! –
Che siamo egocentrici lo dimostra il pensiero condiviso che l intero universo sia stato creato perché noi si possa abitare la terra.
Dunque l’amico,il parente, lo stimato collega a furia di giustificare quello sguardo o quell’atteggiamento, (altrimenti dovrebbe mettersi così spesso in discussione da non arrivare mai a fare ciò che deve tutti i giorni) ha smesso di essere attento, ha creato un cortocircuito, tanto che spesso leggiamo o ascoltiamo commenti insensati relativamente ai più prevedibili e a volte anche tragici eventi. L’assassino stupratore era sempre stato una brava persona, il folle omicida un mite depresso, il suicida uno tranquillo che non si sarebbe mai potuto dire…
Insomma se vuoi sapere qualcosa non fare domande che ti confondi solo le idee, le risposte sono spesso la proiezione di noi stessi, lungi dall’essere la verità, bugie dette nell’assoluta buona fede di chi metterebbe la mano sul fuoco sulla propria oggettivitá
Ieri ascoltavo un programma radiofonico, si parlava della responsabilità e a chi attribuirla, riguardo al recente naufragio. -Vede- si accingeva l esperto interrogato dal giornalista, -in ufficio si fanno molte riunioni, a danno del rendimento produttivo di un azienda, solo per condividere una responsabilità, come a dire siamo tutti qui siamo tutti coscienti ed eventualmente colpevoli. Quindi non si decide mai niente, l unanimità o l’assenso sono mero quieto vivere, perché nessuno che sia sano di mente si espone per dire il suo reale pensiero /opinione. In mare le riunioni sono unicamente operative, per comunicare ad ognuno il suo compito, la gerarchia non concede nessuna condivisione. Il capitano decide e del capitano è la colpa se le cose si mettono male, così come la colpa e di tutti quelli che non hanno obbedito o non si sono attenuti al codice.
Quando mondi cosí diversi si trovano a operare insieme ogni giudizio è vago perché missione e paradigma di ognuno non potrebbero essere + diversi. La compagniaCosta, sono gente di terra e di ufficio. Il personale di bordo, gente di mare. Chi ci va di mezzo non avrà credo mai un unica versione dei fatti se non una versione arbitraria, mediata e mediatica che possa funzionare fino a che non verrá dimenticata. –
Quindi arivo al mio piccolo e penso che tutto sommato essendo che io e l altro apparteniamo ad universi paralleli ma diversi, a nulla serviranno le mie spiegazioni, soprattutto se come la luna e il sole siamo l una abituata a vedere l’altro ogni bardo che separi la luce dalle tenebre.
Solo qualora gli astri, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire, cambiassero bruscamente la loro traiettoria, solo allora forse e forse troppo tardi, la distrazione potrebbe diventare prima attenzione e poi attrazione; come il sogno per la realtà, come lo scoglio per il vascello, come la vita per la morte.
befane, draghi e altre meraviglie tra i globuli bianchi
Il mio frigo fà rumore perchè ha quasi 25 anni e la caldaia fa eco xchè ne ha dieci e i vecchi si sa, brontolano sempre ma di quello che vorremmo sapere ci raccontano molto poco
Anche in una casa di campagna come la mia ci sono rumori che ti accordano ad un tempo meccanico, all’operosa industria del consumo. Dalla finestra un aereo di linea interrompe il blu pristino del cielo già sporco di lunghi rami scuri rigidi e privi di ritmo vitale. In lontanaza campane che suonano senza muoversi.
Non riesco a separarmi da questi due elttrodomestici, e non è una questione economica è orrore di ciò che non conosco.
Fino a ieri la novità mi spingeva fuori dal letto, mi faceva fare le scale 4 a 4 e non c’erano porte o murate che potessero contenermi. Stavo imparando, mi sembrava che non ci fosse un grano di riso uguale all’altro, volevo che tutto fosse diverso e per me lo era.
Provo a chiedermi se ciò che mi fa paura non è ciò che non conosco, ma ciò che conosco gia e non mi piace. Come separare ciò che non conosco dal riconoscere l’affezionato ritornare di vecchi nemici ristrutturati dall’opera ingegnosa e creativa del design ?
Come difendersi da quello che sappiamo già non funzionerà senza chiudersi al nuovo, al diverso, al dopo e al prima?
Mi disturba l’idea che quando altro da ciò che è consolidato fa capolino, riceva sempre un freddo e tal volta ostile benvenuto. Sarà x questo che se ha la fortuna e la stamina di insediarsi, a sua vota elimina tutto ciò che lo ha preceduto e ostacola tutto quello che sta per arrivare.
Allora penso che potrei adottare un criterio elettivo che si basi sull’accoglienza e l’integrazione, per esempio riparare il mio frigo invece di sostituirlo. Il frigo è passivo, o sufficientemente passivo perché me ne possa occupare con tempo e voglia di avere a che fare con gli altri, i creativi del frigo!
Ma che dire di un amico, un collaboratore, un marito. Certo non sono soggetti passivi e in + si relazionano, con pessimi risultati, con la popolazione dei creativi la fuori. Spesso sono loro stessi dei creativi.
L’istinto è quello di un globulo bianco nei confronti di un agente patogeno. L’aggressività che conteniamo o alla quale diamo libero sfogo è genetica, fa parte dell’istinto di sopravvivenza, è connaturata all’essere vivente. Ci vuole grande ricchezza di ogni risorsa per dare il tempo al nuovo di rivelarsi e comunicare le sue intenzioni, ricchezza per non perire in caso di esito nefasto, ricchezza per non perdersi in caso di esito troppo zelante, ricchezza di non accomodarsi in caso di presa per il culo.
Mio figlio scende le scale si stiracchia e mi si siede sulle ginocchia.
Lo abbraccio e lo sbaciucchio, poi penso, se io fossi un globulo bianco e lui qualcosa di nuovo che arriva dall’esterno, quante possibilità avremmo di poterci godere un momento come questo?
Dal fagotto arancione che la befana ha lsciato nel nostro camino escono due automobiline di plastica moto attese, finalmente si potrà usare la pista ricevuta per natale
Gli involucri sgargianti sono un insulto a qualsiasi tipo di politica per il contenimento dei rifiuti e la possibilità di smaltirli per vie differenziate, ma questo non sembra attirare l’attenzione dei miei figli in alcun modo, la confezione non li eccita ne li disincentiva. L’interesse è tutto sulla morfologia vicarita dai due simulacri. Di uno è in discussione l’appartenenza al regno dei pesci o dei mammiferi, 15 minuti di discussione sull’osservazione della pinna riprodotta nell’immagine della carta digitale che servirà ad aumentarne la potenza. Dell’altro, subito viene colta la differenza tra viverna e drago. Cerchiamo sul web informazioni aggiuntive, sporattutto perchè Geo, il + piccolo, sembra deluso di sapere che la sua automobilina non sia un vero drago. Quando apprendiamo che la viverna non sputa fuoco e ha due arti in meno del drago, ma possiede un pungiglione sulla coda e doti magiche, tanto da essere dei due il + temuto, subito riguadagna terreno. Questo rettangolo di plastica colorato del tutto simile a molte altre automobiline già viste, acquisice il fascino delle cose magiche non meno del al gatto di casa, la bacchetta magica di sanbuco e i soldatini di Warhammer.
Mio figlio lupo. quindicenne è felice di sfoggiare le sue conoscenze mitologiche e dedica un ora del suo tempo alla costruzione e prova della Pista insieme al fratellino di 9.
Forse siamo vittime del consumismo e perdutamente sordi alle + basiche regole di questo vivere nella coscienza dei nostri tempi, ma crediamo nella befana come nel potere della cioccolata calda. Speriamo che i draghi esistano da qualche parte e che gli squali uccidano perché non possono fare altrimenti.
Forse cambierò il frigo e posso presagire che quando Il drago salirà in cielo nell’equinozio di primavera, la stessa sorte toccherà probabilmente anche alla caldaia.
Ti auguro e mi auguro…
“…e vorrei tanto che imparasse che le azioni che gli esseri umani perpetrano gli uni contro gli altri non sono solo aberrazioni, ma una parte essenziale di quello che noi siamo. In questo modo soffrirebbe meno. Il mondo non le crollerebbe addosso ogni volta che le succede qualcosa di negativo”.
Muto Natale
Questo natale è per me un natale “Libero”. libero dall’esigenza di fare, libero di ricevere, sereno nel non ricevere.
Una natale in equilibrio sommo sul puntale , precario, ma catartico, perchè a guardarlo dalla base dell’albero sembra magico che tutto quel peso scintillante abbia resistito al vento e ai gatti e noi, e abbia oscillato in qua e in la e ancora lo faccia senza cadere.
E’ bello guardare alle cose mute. Quante parole, molte e troppe non nostre.
Oggi il sole bagna il cortile e l’umidità imprigionata dalle tenebre sembra la neve del mio presepe.
Il “Grazie”nasce spontaneo e non è a chi e non è perché, ma solo “è”
Condivido con chiunque la mia gioia e auguro a tutti questo Natale
Il mercato degli asini
Sabato 15 ottobre 2011 (Giornata internazionale degli indignati) …
Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio.
In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino che gli sarebbe stato offerto.
I contadini erano effettivamente un po’ sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua.
L’uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali.
Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio.
Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio.
Il giorno dopo, affidò al suo socio il gregge che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l’ordine di vendere le bestie 400 € l’una.
Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, la settimana successiva tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini a quattro volte il prezzo al quale li avevano venduti e, per far ciò, si indebitarono con la banca.
Come era prevedibile, i due uomini d’affari andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fino a sopra i capelli.
Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il corso dell’asino era crollato. Gli animali furono sequestrati ed affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere.
Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune.
Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore).
Eppure quest’ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio ne quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti.
Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l’aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia.
Su consiglio disinteressato del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità … Venne innalzata l’età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate.
Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini.
Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un isola delle Bermuda, acquistata con il sudore della fronte. Noi li chiamiamo fratelli Mercato.
Molto generosamente, hanno promesso di finanziare la campagna elettorale del sindaco uscente.
Questa storia non è finita perché non sappiamo cosa fecero gli abitanti del villaggio…
video
Marabotto: i maeriali e le onde radiofoniche
la pillola della felicità
свети атанасhttp://www.lapillolamagica.com/
indonesia appunti
linz
Di recente, in un libro, leggo un passaggio che allude ad una pratica esoterica esercitata al forno:” Uccidi il vivo per resuscitare il morto”. Pratica che io esercito nella vita di tutti i giorni quando faccio domande, sarà per questo che (come mi hanno detto di recente a Linz) le mie domande sono così scomode?
Godetevi le foto:
gialal ad-din rumi nacque in persia nel 1207 e morì in turchia nel 1273, maggiore poeta mistico della letteratura mondiale
qui una poesia che mi è piaciuta fra le tante per voi del gruppo di linz (Simona)
EVOLUZIONE
ogni forma che che vedi ha il suo tipo supremo nell’oltrespazio:
se la forma scompare, non temere: la sua radice è eterna.
Ogni immagine che vedi, ogni discorso che ascolti
non penarti quando scompare, che’ questo non è vero.
Poiché eterna è la fonte, i suoi rami scorrono sempre,
e poi che ambedue mai cessano, inutile è il lamento.
Considera l’anima come fontana e le opere come rivoli:
finché la fonte dura ne scorrono freschi i ruscelli.
Via dal cervello il dolore, e di quest’acqua pur bevi;
non temere che si secchi, è acqua senza sponde!
Da quando tu venisti in questo mondo d’esseri
davanti ti fu messa, per salvarti una scala.
Fosti dapprima sasso, poi divenisti pianta
e ancora poi animale: come ciò t’è nascosto?
Poi divenisti uomo con scienza, mente e fede:
guarda come ora è un Tutto quel corpo, già parte di terra!
E, trascorso, oltre l’uomo, diverrai angelo certo
oltre questa terra, dopo: il tuo luogo è nei cieli.
E passa ancora oltre l’Angelo e in quel Mare ti immergi:
così tu goccia, sarai mare immenso e oceano.
Smetti di parlare di Figlio, di’ col cuore uno.
Se il tuo corpo è vecchio, a che temere, se l’anima è giovane?
sono andata in un blog e ho trovato commenti di sicialiani sui sufi, imperdibile questo:
A mia fragamende lo desviscio ma pare popprie nu frocio turgo colla gonna rotelante como lallama rodande de mezzinga, lu cattone nimato ciapanese. ma nu sa zarvecognine sti dervisciati da anna ngiro colla gonna comme a froci?
Postato lunedì, 30 aprile 2007 alle 6:59 pm da ORONZO LAMERDUTA
privata o pubblica l’acqua un bene prezioso
In prossimità del referendum forse è bene ascoltare esperienze di prima mano
un amica mi scrive:
“allora ho chiamato sergio, il papà di giada che lavora all’acqua potabile da trent’anni
lui dice che non capisce perché un milanese dovrebbe votare no, nel senso che il servizio dell’acqua a milano è sempre stato efficientissimo anche da quando è in mano in parte alla metropolitana milanese.
1. il paese è altamente corrotto e abbiamo oramai infiltrazioni camorristiche anche al nord. La privatizzazione essendo che noi NON siamo un paese virtuoso consentirebbe a merde umane (vedi giro di affari intorno al pattume) di mettere le mani su un bene collettivo.
anche una gestione con controllo del pubblico non ci garantisce perché elenco di amministratori collusi ne abbiamo a raffica (vedi scotti che ha appena corrotto funzionari pubblici per intascarsi u7 MILIONI DI EURO della comunità europea e riempire il cielo di pavia di tossine bruciando sostanze pesanti). Se il pubblico agisce male abbiamo sempre lo strumento di mandarli via con il voto, se hai un’amministratore delegato di un’azienda privata che gestisce l’acqua te lo tieni almeno per 25 anni (i contratti hanno queste durate) NESSUNO LO MANDA VIA.
In sostanza se il pubblico controllasse veramente perché no, il fatto è che il privato frega e il pubblico non controlla.
2. ci sono tre casi italiani di gestione privata di cui uno in Lazio. L’acqua non è migliorata, la bolletta è aumentata e la differenza se la mettono in tasca i privati e sicuramente non spendono soldi per mettere in ordine il sistema idrico che in Italia pare sia veramente obsoleto (come tutto oramai). Inoltre in Italia vedi tv si passa sempre non a vera libera concorrenza ma al massimo a duopoli (rai/mediaset) anche perché le multimazionali interessate al business dell’acqua pare siano 2/3 al massimo. Una francese la suez, per tutte. Quindi dopo il settore alimentare i francesi si prenderebbero pure l’acqua italiana. Peraltro è decenni che le multinazionali cercano di appropriarsi dei bacini idrici boliviani, non credo per il bene dell’umanità.
3. Parigi, Valencia dopo 25 anni di privati nell’acqua stanno tornando al pubblico perché non funzionava la gestione privata, quindi forse bisognerebbe vedere cosa succede nella vicina europa. questa legge intende appaltare il 40 per cento delle risorse idriche italiane. Il paese è troppo corrotto per permettersi una cosa del genere e non curare un bene della collettività, così prezioso, dato che è previsto che le guerre del prossimo secolo saranno per l’approvvigionamento idrico.
questo quanto”
oggi non compro
sei libero?
ciao priscilla
un’amica a roma si sta laurendo in sociologia con una tesi sulla libertà, cosa è oggi libertà come persona e poi come donna… domanda di una certa profondità e vastità.
Per me libertà è data da dentro, mai da fuori.
Se la libertà viene da fuori questa per statuto non c’è, si nasce e la prima mossa è la registrazione del codice fiscale da lì in poi è tutta misurazione, calco prestabilito fatto di censo, razza, geografia, aspettative patriarcali e matriarcali.
Quindi in sostanza non ne vedo da fuori.
O meglio la libertà individuale si intreccia visceralmente con quella sociale. Forse libertà è per forza di cose nella relazione con il mondo.
Parte dunque da un’esperienza interna che paradossalmente coincide con la liberazione da se stessi per partecipare nel mondo. Quindi non viene da fuori ma ti porta fuori da te. Sono libera quando mi dimentico di me, della mia testa nell’accezione di testa vincolante, di testa padrona di tutto. Sono libera quando dimentico le mie idee, i miei pregiudizi e accolgo.
Quando ho sincera intimità con le persone, quando faccio l’amore, quando corro in un prato e sento il vento e la terra. Quando mi sento unita al tutto. Liberata dall’ego.
E’ quando coincido con quello che sono, quando incontro il mio daimon lo riconosco e lo incarno senza falsità. Come direbbero testi sacri indiani TU SEI QUELLO, come direbbe la grecità CONOSCI TE STESSO. Quando c’è coincidenza fra il fatto e quello che sono.
E’ quando non ho paura (ancora la paura appartiene alla testa e si trasmette al corpo). Dire quello che penso al momento giusto, dire un sentimento, dire un desiderio, come donna mi sono sentita liberata quando ho detto ad un uomo che lo desideravo oppure che potevo fare a meno di lui perché i percorsi non coincidevano.
E’ l’indipendenza economica che permette il movimento fisico di conoscenza, viaggiare per esempio. E’ quando ho tempo. Soprattutto come donna libera professionista con un figlio. Quando dilato ed estendo come un elastico tempo e spazio. Quando creo nuovi mondi e nuove assonanze per lavoro. Nella creatività mi sento libera.
Quando nessuno sa dove sono, quando rispetto la relazione che ho davanti e la faccio fluire libera per quello che è togliendomi da quello che vorrei o che dovrebbe essere. Mi sento libera quelle rare volte che c’è armonia fra corpo e mente.
Mi sono sentita liberata quando ho partorito, viaggiato da sola, smesso di fumare, quando non ho detto a tutti quello che facevo. Quando ho tenuto il segreto. Quando ho chiesto a mia madre di stringermi forte.
Se penso ad un’immagine che mi porta alla libertà penso ad un funambolo, a un soffitto che diventa un pavimento, ad un respiro, al vento che colpisce le foglie dell’albero, allo schiamazzo in cortile dei bambini, la trasparenza, il vuoto, l’acqua.
Lo scritto è sensibilmente legato al tempo presente, la riflessione cresce con me.
aspetto tue e di altri, simona
Un tetto per l’arte
Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima – Fernando Pessoa –
http://www.artnews.rai.it/dettaglio_puntata.aspx?IDPuntata=1024
“Per fare qualcosa di diverso dalla televisione bisogna essrere televisione”. Questo uno degli enunciati proposti all’interno di una mostra dal titolo “Are you Ready for TV?” Che si puo visitare in questi giorni al MACBA di Barcelona.
Per distinguersi da qualcosa, bisogna prima essere uguale a qualcosa. Così funziona la natura,il processo di evoluzione.
I motivi di ciò sono che l’imitazione è uno degli strumenti più efficaci di conoscenza, quindi attraverso il processo di mimesi si creano prima simili e poi dissimili .Inoltre sembra che il nostro modo di approcciare la vita sia prima di capire ciò che non vogliamo. Questo processo di esclusione è spesso empirico, ma non è inusuale che di associazione in associazione si possa riconoscere come proprio qualcosa di molto distante da se. La sofferenza, l’ inadeguatezza, che ne derivano potrebbero spingerci a cercarcare nel diverso ciò che ci appaga: l’urgenza dell’arte.
I filmati in mostra riproducono, campionano una realtà mediatica. Parlano di concetti, filosofia, politica,storia, arte… senza spendere parole, ma solo riproducendo immagini. Le sequenze, la collocazione temporale e geografica, compiono il miracolo.
Questo ovviamente è reso possibile dall ‘immenso autorevole potere dell’etichetta referenziante dello spazio museale che le ospita, uno spazio architettonico firmato da un brillante architetto, nel cuore pulsante di una città famosa per per la sua necessità di distinguersi dal resto della Spagna, utilizzando ogni strumento, compresa la lingua; Barcelona di Catalunya.
Come ci mostra uno dei video esposti , classificato sotto la sezione: l’ instancabile comico, l’arte, soprattutto quella concettuale, al di fuori di uno spazio museale dedicato, perde la sua oggettività.
Accade per delle linee tracciate sul muro di una sala espositiva che si portano senza soluzione di continità all esterno, diventando semplici linee, che forse sono decorative, o utili ad informare riguardo all utilizzo di quello spazio sul muro di un cortile? Un banale passaggio di cavi? un indicazione a non parcheggiare?
La Montagna di Sale, istallazione di Domenico Pladino che a breve comparirà in piazza Duomo a Milano, spostata all uscita di un casello autostradale perde la sua oggettività artistica e diventa sale da spargere sull’ asfalto, quindi simbolo e avvertimento di imminenti nevicate.
Al di fuori dello spazio museale, le immagini della mostra al MACBA tornano ad essere solo televisione, come Cenerentola, pur rimanendo fisicamente le stesse, perdono la regalità che la scarpetta di cristallo e cemento, ideata da Richard Maier, ha loro conferito.
C’e quindi da chiedersi: ma il museo fa l’ arte?
Apriamo qui un altro capitolo che potremmo chiamare la costruzione e affermazione di un simbolo.
L’ architettura costruisce simboli largamente condivisi, conferisce materialità e stabilità all’ effimero concetto di arte. Il binomio arte e casa dell arte ha forse punti di contatto con l’ arte primitiva?
La casa Degli uomini haus tambaran in nuova Guinea, un edificio imponente, costruito interamente di vegetali, contiene pezzi di arte primitiva, sono oggetti di uso privilegiato, ossia che vengono ideati e costruiti per essere dedicati a particolari occasioni di importanza assoluta, la vita, la morte, l’ età adulta, il genere… Mi spingerei fino a dire che l’ arte concettuale chiude il cerchio, si ricongiunge con l’arte primitiva. Utilizza imitazioni di oggetti di uso comune, facendone simbolo concreto, ma allo stesso tempo astratto, del potere e della solenità, che l’uso di questi oggetti, ha loro conferito. Per consentire la consevazione di questi oggetti, simboli, poteri, viene loro dedicato un posto architettonicamente imponente e autorvole, che duri vettorialmente nel tempo, che elevi a forma d’arte ciò che oggi è stato scelto dall’establishment per il popolo e preservi nel domani, per la storia di chi verrà.
BIPARTISAN O BIPOLARI?
Questa lettera di protesta in cerca di condivisione, mi arriva in fw via mail da un’amica.
Decido, ad insaputa dell’autore , di pubblicarla e di rispondere
E’ significativo e appropriato che, nel momento delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, gli italiani, o almeno i rappresentanti istituzionali da loro liberamente eletti, soffino sulle candeline della torta confermando una delle nostre doti più caratteristiche: la capacità di fare i peggiori voltafaccia a cuor sereno, adducendo le motivazioni più false.
Il più vergognoso di questi voltafaccia è forse quello nei confronti di Gheddafi e della Libia. Un anno fa abbiamo dovuto assistere all’accoglienza da terzo mondo riservata al colonnello, col quale Berlusconi aveva addirittura firmato un trattato d’amicizia fra i popoli libico e italico. Durante lo scoppio della crisi, silenzio. E ora siamo pronti non solo ad assistere silenti all’invasione del paese, ma a parteciparvi attivamente, fornendo basi e truppe.
Forse che Gheddafi è diverso oggi, da com’era un anno fa? Ovviamente no. Il voltafaccia ha motivazioni molto terra terra, benchè il ministro della Difesa abbia coraggiosamente assicurato che nelle operazioni i nostri non metteranno piede sull’ex paese amico. Queste motivazioni sono che gli Stati Uniti e la Francia hanno deciso di intervenire, e c’è il rischio che ci sostituiscano nello sfruttamento commerciale del paese.
Naturalmente, le motivazioni di Obama e Sarkozy non sono molto più elevate. In fondo, presiedono entrambi paesi che sono ancora letteralmente coloniali: nel senso di possedere letterali colonie, che vanno da Puerto Rico alla Nuova Caledonia. E si tratta di paesi che hanno sempre avuto interessi in generale nel Nord Africa, e in particolare in Libia: ad esempio, il primo intervento armato che gli Stati Uniti effettuarono al di fuori del continente americano fu appunto un bombardamento su Tripoli, nel … 1804!
Ma restiamo ai nostri voltafaccia. Un altro è seguìto agli incidenti nucleari causati dal terremoto del Giappone. Mentre tutto il mondo faceva un esame di coscienza e meditava sull’energia atomica, il governo italiano continuava a dichiarare imperterrito che avrebbe mantenuto in vita il programma di costruzione delle centrali nucleari. Salvo accorgersi che la cosa poteva danneggiarlo dal punto di vista elettorale, come si è lasciata scappare “fuori onda” l’ineffabile ministro per l’Ambiente. E allora, marcia indietro, senza nessun problema.
Naturalmente, non possiamo dimenticare che è proprio grazie a questa nostra dote naturale che siamo risultati i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Gli unici, cioè, che sono sempre stati dalla parte dei vincitori, per tutto il conflitto: prima con l’asse, e poi con gli alleati. All’epoca si diceva che eravamo il doppio di quanti sembravamo, cioè 90 milioni: 45 milioni di fascisti prima della guerra, e 45 milioni di antifascisti dopo.
D’altronde, a proposito di fascisti, cos’altro era il Concordato del 1929, se non un altro storico voltafaccia? Personale, dell’ateo Mussolini. E nazionale, dell’Italia risorgimentale che aveva sconfitto lo Stato Pontificio ed era sorta sulle sue ceneri. Per 68 anni, dal 1861 al 1929, appunto, quell’Italia era rimasta laica e libera, e da un giorno all’altro si era ritrovata clericale e coatta.
Eppure, nelle celebrazioni di questi giorni quell’Italia è assente. Perchè dovunque, in prima fila tra le autorità alle cerimonie, si vedono vescovi e cardinali. Quando non avviene il contrario, e ad essere in prima fila sono invece le autorità alle celebrazioni religiose. Addirittura, il 17 marzo, alla solenne messa celebrata dal Segretario di Stato e conclusa con il canto del Te Deum: che i preti, naturalmente, hanno ragione a cantare, per ringraziare Dio di aver reso così malleabili e generosi i governanti italiani.
Naturalmente, tra i cantanti del coro ce n’erano molti che stavano facendo anch’essi il loro bel voltafaccia. A partire dal presidente della Repubblica, (ex) comunista e ateo come il miglior Togliatti: responsabile, quest’ultimo, dello storico voltafaccia alla Costituente che causò il recepimento del Concordato clerico-fascista nell’articolo 7 della Costituzione laico-repubblicana.
Noi italiani siamo fatti così. E questo ci infonde speranza, perchè presto o tardi faremo un nuovo voltafaccia, e gireremo le spalle anche a Berlusconi. Non si troverà più uno che ammetterà che l’aveva votato, così come una volta non si trovava uno che ammettesse di aver votato la Democrazia Cristiana, che pure era il partito di maggioranza relativa. A festeggiare l’Italia dei voltafaccia, io aspetterò quel momento, anche se sarà ormai troppo tardi per gioire.
George Orwell
http://www.accademiadellacrusca.it/parole/parola_singola.php?id=2561&ctg_id=58
Serendipity
Ogni giorno apro la mail, guardo le news, faccio un giro sulle bacheche dei social, ma quanti messaggi di aiuto? Quante proposte x cambiare strada, corpo, cibo, vita, mondo!
Sono confusa, credo di non essere sola, o meglio di non essere la sola ad essere confusa.
Qualche giorno fa in una piazza di NY un ragazzo aveva un cartello al collo con su scritto hugs for free(regalo abbracci). Mi ha fatto sentire molto sola.
Ieri il mio trainer in palestra mi ha massaggiato con un cilindro di plastica la colonna vertebrale e non la smetteva + di dire quanto bisogno abbiamo di toccarci, di essere toccati.
Ho sentito un servizio su radio dj parlava di germi e di quanto questi fossero ovunque, anche sul carrello della spesa, di come fare a proteggersi.
Ieri mi arrivano mail di gente che non conosco ma che si trova in Giappone e mi racconta di come sta vivendo la paura e il dolore.In fondo commenti di amici indignati per l’indifferenza e l’assenza.
Oggi ricevo una catena travestita da idea sociale x abbassare il costo della benzina e me la manda una persona che quando la incontro a stento mi saluta, in effetti, sono stata l’amante di suo marito.
Poi , quando e dove meno me lo aspetto, su fb, una persona che sta facendo PR mi dice una cosa che sembra vera, sobbalzo, sbigottisco, sono incredula… In mezzo alle frasi fatte, alle citazioni, alle petizioni agli slogan e ai gingle, qualcuno ancora è capace di usare parole sue, pensieri suoi!
Ma allora c’è speranza, ancora il verbo è vita!
conosci, conoscimi, conosciti
Quando sono nata devo aver provato una grande solitudine, niente di ciò che conoscevo, si presentava davanti ai miei nuovi occhi, polmoni, derma. Un mondo alieno, ostile e doloroso. Poi ho cominciato a collezionare esperienza e nella ripetitività ho trovato il primo piacere. Piacere di riconoscere ciò che conoscevo. Credo che questo abbia caratterizzato tutta la mia vita, il piacere è associato a ciò che riconosco.
In questo mondo scarseggiano le cose belle, l’amore, l’incanto, il bene, la gioia…esiste la possibilità che scartando ciò che è nuovo xchè ostile e preferendo ciò che conosco xchè lo conosco, essendo il male meglio rappresentato del bene, in tenera età mi sia sottoposta + frequentemente a esperienze negative che positive
E’ solo una supposizione , ma può essere che all’inizio abbia provato piacere per ogni cosa che riconoscevo, trascurando il piacere di per se stesso, la novità non veniva annoverata tra i piaceri. Piuttosto associata al mondo ostile e alieno. E’ quindi possibile che nella mia scala delle priorità abbia accettato di buon grado e prima, ciò che nella mia vita è accaduto +spesso. Solo dopo, molto dopo, tra le cose che accadevano spesso ho individuato ciò che riconoscevo ed era piacevole e ciò che riconoscevo ed era spiacevole. . L’ostilità e la novità, unite in un binomio primogenio, esperienza matrice, la nascita, hanno possibilmente frenato in maniera importante il mio processo di conoscenza. In altre parole il processo cognitivo ha priorizzato in percentuale drammatica il mio gradimento delle cose conosciute, limitando le possibilità di eleggere la novità inquanto positiva e di conseguenza restrigendo gli input ascrivibili al sistema di valutazione .
Prematuramente impregnata dalla sofferenza + che dalla gioia, forse per questo motivo, preferisco ciò che è male, ma che conosco, rispetto a ciò che non conosco
desidero e sono posseduto
A volte fa paura pensare di avere desideri. Il desiderio è la negazione dell’avere e il possesso, si sa, è per ogni uomo la più grande forma di schiavitù. Soprattutto il possesso di ciò che ci sfugge, di ciò che non è nostro, di ciò che rischiamo di perdere.
Se non a San Valentino QUANDO?
Oggi, giorno di San Valentino, mi piacerebbe ricevere messagini anonimi, complimenti arditi, inviti a cena, mazzi di fiori e cioccolatini.
Si, piacerebbe, sono sicura, a un sacco di altra gente di mia conoscenza. Non solo a quelle femmine che hanno perso la speranza, ma anche a quelle che ancora ci credono
Se succedesse vorrebbe dire CHE ABBIAMO LE IDEE CHIARE.
Forse alla ricerca di qulache cartolina digitale, magari impiglita nelle maglie binarie del mio complicato sistema sociomediatico, ho spulciato tutti i blog, i social e gli account di posta di cui sono attrezzata.
Ad ogni clic mi è spuntato fuori un messaggio di solidarietà in keynote, pezzi del video relativi alla grande manifestazione di piazza di ieri e glaciali commenti a proposito di quanto commerciale, stupido e consumistico sia festeggiare il giorno degli innamorati. Sono a pezzi!
Io, non c’ero ieri in piazza, ero in Svizzera, stavo aiutando una amica che lavora per un emittente RAI a realizzare uno dei molti “tre minuti su” che affollano i palinsesti del nostro caminetto mediatico tricolore.
Com’è ovvio per una donna di mezza età, “…madre studentessa, precaria, giornalista, casalinga…” così ben evocato da Isabella Ragonese sul palco rosa della piazza romana, mi sono sentita immediatamente in colpa per non aver, nemmeno pensato, di “prendere tempo e poi prendere la borsa e uscire” x dimostrare anche io, essere solidale anche io, autorappresentarmi e promuovermi anche io…ma è stato un attimo, solo un attimo, perchè poi sono echeggiate le parole della sindacalista Susanna Camusso:
“…vorrei che quando si dice sesso si parlasse di una relazione tra pari e non di un incarico politico…” che detto da lei deve aver evocato un bel po di sorrisi tra quelli che ebbe compagni del”età + bella.
Si, forse blasfema e volgare, ma ho riso e mi è passata, e ho riso ancor di + quando ho sentito Lunetta Savino recitare i monologhi della vagina “la vagina ha bisogno di confort” si perché è proprio vero che ne avrebbe bisogno (io per esempio inviterei tutti i maschietti a darsi da far con i SANVALENTINO di carta, digitali, profumati o cioccolatosi, festggiare fa bene, corteggiare meglio) ma mentre qui si evocano i dinosauri, da Anna Magnani a Eva Ensler, sempre nello stesso modo, con le stesse modalità della piazza , come giustamente o ingiustamente, scrive il nostro Beppe Severgnini dalle pagine del Corriere della Sera di oggi, insomma, mentre qui si discute di tutte le bambole del presidente, è possibile che salti il tappo in tutta l’area mediorientale: a Teheran scendono in piazza incitando “death to dictators”.
Ho come la sensazione che siamo tutti nella stessa MARCIA ma sappiamo dove stiamo andando?
Condivido con Serena Dandini che “le manifestazioni di piazza non risolvono i problemi, a questo deve pensare la politica”. Credo anche che il grande coinvolgimento di piazza ci racconti che siamo tutti un po’ alla ricerca di qualcosa, qualcuno, che faccia la prima mossa verso un camabiamento, che non sappiamo esattamente come o dove, ma siamo pronti a spalleggiare chi si muove, ha idee, progetti, visioni.
Muovo una critica a queste donne, sorelle così piene di energia: Per fare qualcosa di diverso bisogna prima copiare e poi distaccarsi, copiare è un ottimo metodo x imparare a conoscere, però copiare se stesse mi sembra un po’ oltre. Non vedo provocazioni, non vedo sfide, non vedo quella potenza di rottura che può spiazzare e destrutturare lo stato attuale dei giochi.
Ma perché nessuna delle signore attrici, avvocati o socialmente impegnte hanno sfidato Silvio Berlusconi sul suo territorio?
Perchè non hanno proposto di essere invitate a cena, in prima serata, su una delle sue emittenti, avrebbero potuto fare domande e lui cercare di sedurle, sedarle e ricondurle alla femminilità…x innaugurare Un Reality, magari ” il + grande spettacolo dopo il big bang”…se non a San Valentimo QUANDO?
Il Non Edificio
La School of Art, Design and Media di Singapore è, probabilmente, l’università più avveniristica al mondo: costruita nel 2006, è stata definita un “nonbuilding”, un “non-edificio” di 18 mila metri quadri distribuiti su cinque piani.
Immersa in un parco di 200 ettari, riesce a mimetizzarsi quasi fosse un capanno da caccia; tre palazzi a forma di anfiteatro, con un piccolo lago artificiale al centro, si sfiorano e si intersecano, con tetti erbosi che, a livello del terreno, salgono dolcemente per poi ridiscendere con uguale pendenza, diventando colline su cui passeggiare. Le pareti sono enormi cristalli: durante il giorno riflettono l’ambiente naturale circostante e la notte trasformano l’edificio in una grande e fiabesca lanterna, giocando con le armoniche asimmetrie del pensiero orientale.
Le trasparenze e le sinuosità danno la sensazione di un continuo tra gli spazi interni e il parco circostante, la cui vegetazione colonizza questa grande struttura.
Nato con l’idea di preservare un grande polmone verde per la città, il progetto della School of Art, Design and Media è un esempio riuscito di architettura ecosostenibile, con un impatto ambientale minimo rispetto alle grandi dimensioni e un ridotto consumo di energia, grazie agli isolamenti termici e al tetto di terra e erba.
Ape impegnata non ha tempo per dolersi
Un edificio di questo tipo da il meglio di se verso l’esterno, è pensato per comunicare come un speaker sul podio. Molti hanno avuto occasione di visitarlo in questi giorni, ad ultimato restauro, ora che ospita formalmente il Museo del Novecento
I commenti non sono stati molto incoraggianti, trà i pù positivi: “almeno adesso ce ne abbiamo uno” riferito al fatto di avere finalmente, anche noi cittadini milanesi, un museo di arte moderna. Altri lamentavano l’assenza di opere fondamentali ad esporre esaustivamente il novecento lombardo. Altri, l’assenza di spazi congrui e necessari ad apprezzare opere imponenti quali Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e buona parte delle sculture.
Quello che è parso sfuggire ai + è proprio la struttura, l’arringatore ha riempito il suo ventre di arte!
Forse dalla terrazza si potrà ammirare l’arte contemporanea, creando un filo d’oro tra ieri, oggi, domani…
Forse da quella terrazza arringheranno i gestori di questa nostra città cercando di ottenere in cambio di questo tanto discusso spazio dedicato all’arte, un po di spazio nelle future campagne elettorali.
Forse la terrazza rimarrà chiusa e solitaria perché la comunicazione di massa oggi non è più fisica ma affidata al cablaggio e all’etere, spine dorsali dei nuovi e vecchi media.
Alla fine degli anni 70, su quella terrazza, gli adolescenti andavano a fumarsi una sigaretta e, al riparo degli occhi indiscreti, ne approfittavano per scambiarsi ardite effusioni. Dentro, polverose stanze, sede dell’ufficio del turismo.
Leggo e riporto testualmente lo scopo di questo spazio dedicato come nelle intenzioni degli organizzatori:
« Diffondere la conoscenza dell’arte del Novecento per generare pluralità di visioni e capacità critica »
ma c’è dell’altro; prossimamente avremo un altro spazio dedicato all’arte, all’arte contemporanea , all’interno un complesso termale, sul tetto un giardino pensile.
“Il progetto – ha dichiarato, infatti, l’assessore Sgarbi intervenuto alla presentazione – è innovativo e si inserisce in un filone di musei che sono monumenti essi stessi prima che contenitori di opere, come il Guggenheim di New York, quello di Bilbao e il Beaubourg di Parigi: luoghi in cui l’architetto diventa garante per l’arte contemporanea essendo lui stesso un artista contemporaneo”.
Il costo dell’operazione è stimato intorno ai 40 milioni di euro.
Per qualche strano motivo mi coglie come come un grano di sale in una bibita dolce la parola “garante” e scivolandomi sulla lingua ci gioco e mi chiedo quali debbano essere le credenziali e le qualità di un garante, ma è solo un attimo, poi torno a fare l’ape impegnata e immagino con piacere un momento di relax termale tra un opera garantita e una passeggiata su un tetto verde.
la casa dell’arte
Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima – Fernando Pessoa –
“Per fare qualcosa di diverso dalla televisione bisogna essrere televisione”. Questo uno degli enunciati proposti all’interno di una mostra dal titolo “Are you Ready for TV?” Che si puo visitare in questi giorni al MACBA di Barcelona.
Per distinguersi da qualcosa, bisogna prima essere uguale a qualcosa. Così funziona la natura,il processo di evoluzione.
I motivi di ciò sono che l’imitazione è uno degli strumenti più efficaci di conoscenza, quindi attraverso il processo di mimesi si creano prima simili e poi dissimili .Inoltre sembra che il nostro modo di approcciare la vita sia prima di capire ciò che non vogliamo. Questo processo di esclusione è spesso empirico, ma non è inusuale che di associazione in associazione si possa riconoscere come proprio qualcosa di molto distante da se. La sofferenza, l’ inadeguatezza, che ne derivano potrebbero spingerci a cercarcare nel diverso ciò che ci appaga: l’urgenza dell’arte.
I filmati in mostra riproducono, campionano una realtà mediatica. Parlano di concetti, filosofia, politica,storia, arte… senza spendere parole, ma solo riproducendo immagini. Le sequenze, la collocazione temporale e geografica, compiono il miracolo.
Questo ovviamente è reso possibile dall ‘immenso autorevole potere dell’etichetta referenziante di uno spazio museale ospitante, uno spazio architettonico firmato da un brillante architetto, nel cuore pulsante di una città famosa per per la sua necessità di distinguersi dal resto della Spagna, utilizzando ogni strumento, compresa la lingua; Barcelona di Catalunya.
Come ci mostra uno dei video esposti , classificato sotto la sezione: l’ instancabile comico, l’arte,soprattutto quella concettuale, al di fuori di uno spazio museale dedicato, perde la sua oggettività.
Accade per delle linee tracciate sul muro di una sala espositiva che si portano senza soluzione di continita all esterno, diventando semplici linee, che forse sono decorative o utili ad informare riguardo all utilizzo di quello spazio sul muro di un cortile, un banale passaggio di cavi? un indicazione a non parcheggiare?
La Montagna di Sale, istallazione di Domenico Pladino che a breve comparirà in piazza Duomo a Milano, spostata all uscita di un casello autostradale perde la sua oggettivita artistica e diventa sale da spargere sull’ asfalto, quindi simbolo e avvertimento di immanenti nevicate.
Al di fuori dello spazio museale le immagini della mostra al MACBA tornano ad essere solo televisione, come Cenerentola, pur rimanendo fisicamente le stesse,perdono la regalità che la scarpetta di cristallo e cemento, ideata da Richard Maier, ha loro conferito.
C’e quindi da chiedersi: ma il museo fa l’ arte?
Apriamo qui un altro capitolo che potremmo chiamare la costruzione e affermazione di un simbolo.
L’ architettura costruisce simboli largamente condivisi, conferisce materialità e stabilità all’ effimero concetto di arte. Il binomio arte e casa dell arte ha forse punti di contatto con l’ arte primitiva?
La casa Degli uomini haus tambaran in nuova Guinea, un edificio imponente, costruito interamente di vegetali, contiene pezzi di arte primitiva, sono oggetti di uso privilegiato, ossia che vengono ideati e costruiti per essere dedicati a particolari occasioni di importanza assoluta, la vita la morte, l’ età adulta, il genere… Mi spingerei fino a dire che l’ arte concettuale chiude il cerchio, si ricongiunge con l’arte primitiva. Utilizza imitazioni di oggetti di uso comune, facendone simbolo concreto, ma allo stesso tempo astratto, del potere e della solenità, che l’uso di questi oggetti ha loro conferito. Per consentire la consevazione di questi oggetti, simboli, poteri, viene loro dedicato un posto architettonicamente imponente e autorvole, che duri vettorialmente nel tempo, che elevi a forma d’arte ciò che oggi è stato scelto dall’establishment per il popolo e preservi nel domani per la storia di chi verrà.
«Navigare è necessario, vivere non è necessario» Il libro dell’inquietudine
Infibulazione
L’infibulazione, subita da gran parte della popolazione femminile somala, è quella pratica pseudoreligiosa con la quale vengono amputati gli organi sessuali. È il più brutale tra i riti di iniziazione, destinato a segnare l’intera esistenza di chi lo subisce: le vittime sono bambine che non hanno ancora raggiunto l’età fertile.
La giovane donna di un villaggio agricolo sul fiume Shebeli, vicino a Mogadiscio, descrive così quel drammatico intervento:
“Mi fecero sedere su uno sgabello nuda e, dopo avermi legato le mani, una donna alle mie spalle mi bloccò abbracciandomi, altre due mi divaricarono le cosce perché la vulva restasse ben aperta. La gedda (ndr così viene chiamata l’anziana del villaggio che pratica l’infibulazione) nel nome di Allah, il Clemente e Misericordioso, impugnò il coltello e con un taglio rapido mi amputò la clitoride; io urlavo e tentavo di divincolarmi, mentre guardavo mia madre che stava in piedi davanti a me. Poi mi asportò le piccole labbra e scarnificò i contorni delle grandi labbra, li unì e li suturò con due, tre spine di acacia, per farli cicatrizzare l’uno con l’altro; lasciò solo una piccola apertura per permettere all’urina e al sangue mestruale di uscire; infine, aiutata dalle altre donne, mi legò le gambe con una fune di stoffa. Mi immobilizzarono per un mese. Il mio sesso era diventato impenetrabile e restò tale fino al giorno in cui fui data in moglie. Mio marito, usando solo le mani e il pene, partendo dal piccolo orifizio lasciato dalla vecchia il giorno dell’iniziazione riaprì di nuovo la vulva lacerandola. Avevo sedici anni.“
L’Isola della Reunion
La Terra della Distruzione
Quando nell’autunno del 1153 il geografo arabo Al Sharif el-Edrissi, vide davanti alla prua del suo dhow quello scoglio che imprigionava le nuvole in viaggio dall’India verso l’Africa meridionale, pensò che aveva un aspetto poco rassicurante e si avvicinò con grande prudenza.
Consultò una rozza carta nautica che risaliva a più di un secolo prima, tracciata dall’ammiraglio della flotta del re tamil Rajaraja Chola, e guardò con diffidenza ancora maggiore le onde che si frangevano contro la barriera corallina, le rocce, i picchi coperti da nuvole plumbee, il fumo denso che saliva fino a nascondere il sole.
Ci sarà pur stata una buona ragione se i tamil a quello scoglio avevano dato il nome di Theemai Theevu, Terra della Distruzione.
Al Sharif el-Edrissi non ci perse molto tempo, gli bastarono quattro giorni per circumnavigarlo e, tornato al punto di partenza, disegnò un cerchietto nero sulla sua mappa a 21 gradi a Sud dalle equatore e a 700 chilometri a Est del Madagascar, lungo la rotta tra l’India e il Capo di Buona Speranza, al centro della fascia su cui corrono i terribili cicloni tropicali, e lo chiamò Dina Morgabin, Isola dell’Occidente, a occidente di non si sa cosa.
Una settimana dopo, sbarcato al porto di Zafiraminia, considerò quel piccolo cerchio quasi fosse una macchia d’inchiostro, del kohl caduto mentre si truccava gli occhi, e venne dimenticato per un lungo, lungo periodo.
L’isola della Reunion si difende anche in questo modo, mostrandosi impervia e inospitale; se la si incrocia arrivando dal meridione non offre certo buoni approdi: imponenti pareti di roccia vulcanica inquietantemente scure, trasformate dalla violenza del mare in falesie
verticali, ne fanno una fortezza naturale inavvicinabile.
Passati tre secoli, quello scoglio che affiora nel mezzo dell’oceano divenne un punto di transito dei navigli portoghesi in viaggio verso l’India, ma appariva talmente insignificante che le loro carte nautiche lo ignoravano.
Nel 1504, sulla caravella comandata da Diego Fernandez Peteira, un giovane ufficiale di rotta, dovendo prender dimestichezza con l’uso dell’astrolabio , ne rilevò le coordinate e le segnò sul giornale di bordo. Era il 9 febbraio; dovendo dargli un nome ed essendo venerdì, pensò di chiamarlo Sextafeira, ma alla fine scelse Santa Apollonia, la santa del giorno, patrona dei dentisti.
Il nuovo nome non servì a renderla più attraente; l’isola rimase ancora disabitata per più di un secolo, fino al 2 ottobre 1654, giorno in cui il francese Antoine Couillard sbarcò in una baia del nord ovest con due suoi connazionali, cinque malgasci, cinque vacche, un toro,
due maiali, alcuni volatili e delle piante di tabacco.
Da quel momento divenne un pezzo di Francia, che cambiava nome ad ogni terremoto istituzionale: con Luigi XIV venne battezzata île Bourbon, île de la Reunion durante gli anni della Rivoluzione, île Bonaparte con Napoleone.
Gli abitanti si moltiplicarono e si adattarono al suo carattere un po’ scontroso: terra di cicloni, di maremoti improvvisi, con un vulcano che riesce a trasformare in rogo persino l’acqua dell’oceano e piogge tanto intense da non avere pari in nessun’altra parte del
mondo.
Quel “quasi niente” nell’oceano, non più grande di Parigi con la sua periferia, è un piccolissimo continente: lungo le coste del nord ci sono conche fertili e vallate rigogliose tra montagne che trasudano acqua, ma basta percorrere cinquanta chilometri e, arrivati al
confine Sud, si scopre la siccità, con le nuvole bloccate dai massicci dei Cirque de Mafate, Salazie e Cilaos.
E se a livello del mare la temperatura non scende mai a meno di 27 gradi, sui monti vulcanici si finisce sotto lo zero: alla Reunion, viaggiando in auto per tre ore, si può passare dal caldo oceano tropicale alla neve del Piton des Neiges, fino ai fiumi di lavanincandescente del Piton della Fournaise.
Un luogo anomalo con una storia anomala.
Il primo nucleo di residenti trovò solo qualche pacifico animale che per millenni aveva vissuto indisturbato, tanto da diventare geneticamente e morfologicamente incapace di difendersi.
Fu il caso del dodo, un grasso e pigro uccello che non sapeva più volare, con un’aria tutt’altro che intelligente, il cui destino divenne quello di facile preda per gli ospiti. Non che la sua carne fosse cibo prelibato, i marinai olandesi nel millecinquecento lo avevano
battezzato “Uccello Disgustoso”, ma era comodo da prendere, almeno quanto una mela dall’albero, e questo fu sufficiente per portarlo all’estinzione.
Oggi la Reunion è una meravigliosa isola, forse un po’ troppo abitata.
Grande quanto un terzo della Corsica, con poco meno di 800 mila abitanti, dal 1946 è una Regione d’oltremare della Francia, un frammento politico e amministrativo del Vecchio Continente tra Africa e India, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta: uguale trattamento economico dei lavoratori francesi, uguale costo della vita (forse addirittura più cara), identici diritti per servizi sociali e assistenza sanitaria.
L’Unione Europea la considera regione “ultraperiferica”, sia per ragioni di distanza sia per lo sviluppo del sistema produttivo, e per questo interviene con consistenti aiuti finanziari, tanto che, pur essendo lontana dall’autosufficienza, gode di un benessere piuttosto
diffuso.
Non c’è nessun altro luogo nel raggio di 5 mila chilometri in cui la qualità della vita sia così elevata, benché le uniche voci attive nella bilancia commerciale riguardino la produzione della canna da zucchero, con i suoi derivati, e della vaniglia. Il turismo, nonostante le straordinarie bellezze naturali, a causa dei prezzi piuttosto impegnativi e della grande concorrenza delle vicine isole Mauritius e delle Seychelles (sicuramente più economiche) stenta a decollare.
Melange alla Reunionese
Bisnonna nera e bisnonno bianco, nonno meticcio e nonna bianca, genitori entrambi bianchi; lui, il primo figlio, con una moglie cinese incinta, suo fratello tiene sottobraccio la fidanzata, una ragazza di cui è impossibile immaginare la provenienza, sembrerebbe orientale se non fosse per gli occhi azzurri.
Non è raro incontrare famiglie così variegate passeggiando in una delle città di questa isola, perché alla Reunion non esiste una razza autoctona ed è assai problematico seguire i dettami del “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. Fino alla metà del ‘600 era completamente disabitata, poi sono arrivati i francesi, i malgasci, i neri dall’Africa continentale, i gujarat e i tamil dall’India, i cantonesi dalla Cina, gli arabi dallo Yemen e da Zanzibar, e il risultato non è quello di una popolazione multietnica: gran parte dei reunionesi sono, individualmente, multietnici, con un albero genealogico che abbraccia tre continenti e gran parte delle culture esistenti.
Questo è uno dei rari posti al mondo, forse l’unico, in cui non ha senso parlare di integrazione razziale perché, anche nella piramide sociale, si passa senza soluzione di continuità dal bianco al nero, dai capelli chiari a quelli scuri, dagli occhi a mandorla agli occhi azzurri. Difficile essere razzisti quando in famiglia si hanno antenati di provenienze diverse, impossibile essere xenofobi se tutti, ma proprio tutti, ricordano ancora il proprio avo “straniero”.
Il tesoro della Poiana
Alle 5 del pomeriggio di venerdì 7 luglio 1730 il boia infilò il cappio al collo del pirata Olivier Levasseur, soprannominato La Buse, la Poiana; tutti gli abitanti di Saint-Denis, poche centinaia di persone, furono invitati ad assistere a quella esecuzione. Mentre saliva sul patibolo, La Buse si strappò la collana e la lanciò a quella piccola folla urlando: “Mon trésor à qui saura comprendre !” (Il mio tesoro è di chi saprà capire! ).
Appeso alla collana, in un contenitore di cuoio, vi era un foglietto su cui aveva scritto un crittogramma di 17 righe: era la mappa cifrata del luogo dove aveva nascosto le sue ricchezze.
Poco prima aveva detto alle guardie che lo scortavano: “Con quel che ho qui potrei comprare l’intera isola”.
Il pirata non mentiva: in 14 anni di folgorante carriera era riuscito ad accumulare un’enorme fortuna, pari a quella di un re.
Il grande colpo della sua vita lo mise a segno quando aveva 30 anni, il 17 aprile del 1720.
Navigando non distante dalle coste dell’isola della Reunion, si trovò nel mezzo di una tempesta e decise di far rotta verso il porto di Saint-Denis. Arrivò che era ancora notte, la luna quasi piena illuminava una caracca portoghese a quattro alberi che aveva trovato rifugio nella baia: era la Nossa Senhora Do Cabo.
All’alba la attaccò.
La Buse, la Poiana, si lancia in picchiata sulla preda lasciandola senza scampo; i suoi uomini vanno all’arrembaggio e con un’azione fulminea si impadroniscono di una nave da 800 tonnellate, armata con 72 cannoni, che ospita Luís Carlos Inácio Xavier de Meneses, conte di Ericeirae, marchese di Louriçal, vice-governatore delle Indie Orientali, e l’arcivescovo di Goa, Sebastian de Andrado, ma, soprattutto, trasporta un tesoro dal valore incommensurabile in pietre preziose, oro e argento, che oggi viene valutato in più di due miliardi di euro.
Olivier Lavasseur fa sbarcare gli ospiti e l’equipaggio, per salpare con la Nossa Senhora Do Cabo e il suo carico prezioso, di cui si perde ogni traccia.
Per i successivi 200 anni scompare anche il crittogramma lanciato da Lavasseur alla folla il giorno della sua impiccagione, fino a quando, il 15 luglio del 1934, nell’edizione domenicale del Milwaukee Journal, quotidiano del Wisconsin, viene pubblicata un’intervista a Charles de la Roncière, funzionario della Biblioteca Nazionale di Francia, che afferma di possedere il crittogramma e lo rende pubblico.
Da quel momento inizia una caccia al tesoro che ancora oggi continua in un’area piuttosto vasta dell’oceano Indiano: Isola della Reunion, Seychelles, Rodrigues, Madagascar, Mayotte, Isola di Sainte-Marie.
Ecco il crittogramma.
La Diagonale dei Folli
Centocinquanta chilometri di saliscendi tra foreste tropicali, pietraie e crateri vulcanici: il Grand raid de la Reunion è una delle più dure e delle più lunghe maratone al mondo.
Ogni autunno, da 17 anni, duemilacinquecento persone provenienti dai cinque continenti si ritrovano a Cap Mechant, nell’estremo Sud dell’isola, per percorrere quella che viene chiamata “La diagonale dei folli”; i migliori chiudono la gara in poco più di 22 ore, a una media di 7 chilometri l’ora, con poche soste e neppure un minuto di sonno, gli ultimi ci mettono 2 giorni e mezzo; il 40% dei partecipante non riesce a tagliare il traguardo, perchè
vinto dalla stanchezza o vittima di una caduta.
Il via viene dato alle due del mattino nello stadio di Cap Mechant, all’estremo sud dell’isola, sulle rive dell’oceano.
Dopo un breve tratto di pianura inizia il susseguirsi di salite e discese: a 30 chilometri dalla partenza si è a 2350 metri di altitudine, sulla cresta del Piton de le Fornaise, il vulcano attivo della Reunion, poi si passa a 900 metri per risalire oltre i 2000 e ridiscendere fino al mare.
La gara si conclude a Saint-Denis, capoluogo dell’isola, nell’estremo Nord.
L’edizione del 2011 si terrà dal 13 al 16 ottobre.
Singapore
La scultura di Botero sul Singapore River è una rappresentazione efficace di questa città: un uccello grasso e ben piantato sulle zampe, che sicuramente non riesce a prendere il volo ma non sembra disposto a diventare preda di qualcuno.
Singapore è il paese degli eccessi, perfetta per Botero, talmente dilatata da occupare tutto lo spazio vitale di cui dispone.
La sovrabbondanza
Questo minuscolo arcipelago, incastrato tra Malesia e Indonesia, a un solo grado a Nord dalle equatore, in meno di 600 chilometri quadrati ospita cinque milioni di persone; piove sempre, in qualunque giorno di qualunque mese dell’anno il cielo si copre improvvisamente e scendono cascate d’acqua; i suoi grattacieli sono tra i più alti del mondo; 4 le lingue ufficiali, 13 quelle più parlate; 7 sono le religioni principali, con cattedrali in stile gotico, pagode, moschee, templi induisti e buddhisti.
Passeggiando per le strade del centro non si riesce a capire dove finisce l’apparenza e dove inizia la realtà; ci si guarda attorno e regna un ordine inusuale: tutto è perfetto, lindo quanto la Piazza Rossa a Mosca nei giorni del comunismo, non c’è nessun ingorgo, nessuna coda, neppure un colpo di clakson.
La criminalità si avvicina allo zero, forse perchè le punizioni sono tutte tragicamente esemplari; questa è la nazione che, in rapporto al numero di abitanti, applica con maggior frequenza la pena di morte.
Singapore è il Paese dei divieti: vietata la pornografia, vietato avere una parabola satellitare, vietato acquistare e masticare chewingum senza ricetta medica; fino a qualche decennio fa ai maschi era vietato portare i capelli lunghi.
La pari dignità tra etnie e culti diverse è legge dello Stato e rispettata con rigore assoluto: cinesi, malesi, indiani europei, buddhisti, islamici, cristiani, induisti, sikh, ebrei e zoroastriani convivono senza alcuna tensione.
Modestamente ricchi
Singapore è ricca, molto ricca, il reddito procapite supera i 23 mila dollari l’anno, con un patrimonio accumulato producendo quasi nulla di materiale: grandi investimenti nella tecnologia informatica e, soprattutto, scambio di merci provenienti da altri luoghi, passaggi di mano per lo più virtuali, transazioni di borsa fatte al computer da migliaia di colletti bianchi, immigrati da ogni parte del mondo, che all’ora di pranzo hanno giusto il tempo di lasciare l’ufficio per scendere in un food court a mangiare un panino; gente che all’alba inizia a speculare sulla borsa di Tokyo e poi, in sovrapposizione, su quella locale, su Mosca, sui mercati europei e su New York che chiude quando sono le 5 del mattino, due ore di sonno e si ricomincia.
Singapore è il trionfo del libero scambio, l’impeccabile esempio miniaturizzato della società globale, dell’economia virtuale che domina l’economia reale; sembrerebbe la perfetta rappresentazione pratica della teoria liberista Occidentale, se non fosse per il fatto che Singapore è anche la modestia del Tao, che invita a non aver pretese se si compiono imprese difficili, perchè il destino di ciò che sale è quello di scendere, nella vita come in borsa, e la ricchezza ostentata e raccontata si esaurisce in fretta.
Il bazar delle culture
Qui non c’è nulla di autoctono ma si incrociano e si intersecano culture che provengono da altri luoghi. Tutto questo a un occidentale appare inquietante quanto l’uccello obeso del Singapore River, quanto l’arte di Botero, con i suoi personaggi strabici che non si sa da dove arrivino e dove stianno rivolgendo lo sguardo, perchè le diversità si incrociano ad ogni angolo di strada e non esiste più alcun rigore imposto dalla propria cultura, dalla fede, dalle tradizioni. Sri Mariamman, il tempio induista più grande e più sfarzoso, sorge nel bel mezzo di China Town, e se si prova a chiedere ai monaci che lo animano perchè non è stato fatto nel quartiere indiano, la loro risposta è laconica e non lascia spazio a repliche “Perchè, come vede, è stato costruito qui.”
Il treno del progresso
Se camminando tra i palazzi del centro si tiene lo sguardo ad altezza d’uomo ciò che appare è un ordine quasi amorevole, che sa di favola per bambini, di solida tradizione, ma alzando gli occhi al cielo la realtà cambia improvvisamente: l’ordine diventa geometrico, lineare e scientifico, l’architettura proietta la città verso l’alto, verso il domani, e le nostre metropoli diventano cosa vecchia, un po’ decadente. Quelle costruzioni non sono semplicemente delle torri che sfidano la forza di gravità per riuscire ad ammassare tra quattro mura migliaia di esseri umani, sono piuttosto opere dal disign sofisticato, enormi vasi da cui sbucano piccoli boschi e cascate di fiori, macchine metaboliche che funzionano prendendo energia dal sole. La chiamano “architettura ecosostenibile” e ci si ferma a gardarla un po’ imbarazzati: “Ecco qui il futuro, ecco il treno del progresso che ci supera e sfreccia davanti a noi”.
Affari di famiglia
Forma e contenuto sono difficili da distinguere. Il Paese si dichiara da più di quarant’anni una repubblica parlamentare e così sembra: solidamente democratico e liberista per vocazione; una democrazia guidata con mano ferma da un primo ministro che si chiama Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, padre della patria, che ha governato ininterrottamente per 31 anni. Insomma, è una repubblica assai simile a una monarchia, con un parlamento espresso dal popolo ma che non ha una grande libertà di espressione, e una democrazia non tanto democratica ai nostri occhi.
Lee padre e Lee figlio continuano a essere i leader indiscussi, e persino amati, di una nazione che può vantare un livello di corruzione pari a zero, una crescita economica senza soluzione di continuità e una visione progressista del mondo. Si sono entrambi laureati a Cambridge, il primo in legge e il secondo in matematica, uomini colti e soprattutto pragmatici, a tal punto da decidere che era il caso di cancellare la legge che dichiarava l’omosessualità un crimine solo quando un gruppo di ricercatori scoprì che, in giro per il mondo, le aree produttive più dinamiche e innovative erano quelle in cui vi era la più alta concentrazione di gay.
Per conservarsi sani e obesi
Ecco il senso dell’arte di Botero, che toglie la dimensione morale senza creare immoralità; così Singapore, con le sue leggi repressive e il suo governo autoritario, mostra delle aperture inaspettate: il diavolo e l’acqua santa, il lupo e l’agnello, possono tranquillamente stare l’uno accanto all’altro, purchè trovino un punto d’accordo, una buona ragione per cui valga la pena convivere. E la buona ragione è quella di poter rimanere obesi e ben piantati sulle zampe, senza mai perdere il contatto con la terra ma con un paio d’ali che, per quanto inadeguate, lasciano immaginare la potenzialità del volo, come la scultura sulla passeggiata del Singapore River.
La Città Globale
Le chiamano Global City, World City, Alpha City, e sono considerate le capitali della globalizzazione. Singapore è la quinta per importanza, dopo New York, Londra, Hong Kong e Parigi.
La classifica viene stilata sulla base di parametri come la ricchiezza, la qualità dei servizi, le iniziative culturali, la presenza di strutture avanzate nelle telecomunicazioni.
In quanto a ricchezza Singapore è tra i primi otto paesi al mondo (in rapporto alle dimensioni, naturalmente), con un prodotto interno lordo pro-capite che supera i 37 mila euro (in Italia non si arriva a 23 mila), un tasso di disoccupazione al 3% (7,5 in Italia) e un’inflazione che si avvicina allo zero. Per le telecomunicazioni il governo scommette sul fatto che tra cinque anni sarà la prima al mondo, e per arrivare a questo obbiettivo nel 2005 ha varato un masterplan decennale battezzato Intelligent Nation, la Nazione Intelligente. Gli obiettivi, che già oggi non sembrano affatto lontani, sono quelli di far crescere il fatturato delle industrie di telecomunicazione fino a 26 miliardi di dollari, spingere l’esportazione di prodotti tecnologici a 60 miliardi di dollari, creare 80 mila nuovi posti di lavoro, portare la banda larga al 90% degli abitanti, assicurare a ogni studente un computer connesso alla rete.
Augusto Franzoj aveva un sogno
Augusto Franzoj salì faticosamente il sentiero sulla collina stringendo tra le mani deformate dall’artrite il calcio di due pistole acquistate 11 anni prima a New York.
Raggiunta la cima si sedette sotto un albero e osservò Torino illuminata dal sole primaverile.
Fermò lo sguardo sul falso minareto appena costruito nel quartiere dell’Esposizione Internazionale e pensò a quanti ne aveva già incontrati, minareti veri con i muezzin che chiamavano i fedeli alla preghiera.
Da tempo sapeva che non sarebbe più andato in nessun luogo, perché a 63 anni aveva esaurito le forze e le risorse.
Pochi giorni prima “un povero travet ferroviario, che aveva avuto un tozzo di pane per merito suo e che egli amò come un figlio, dovette correre per tutta Torino alla ricerca di 100 lire per pagargli l’affitto e si sentì rifiutare l’obolo di Belisario da tante personalità insigni o pseudo insigni”.
Franzoj capì che era arrivato il momento di farla finita.
Si disse che lasciava assai poco in sospeso, forse solo un sogno, un ultimo sogno che lo aveva accompagnato negli anni del decadimento: tornare nel Corno d’Africa per trovare un tesoro di carta, rinchiuso in una cassa di legno con incise due lettere: AR.
Quel tesoro lo aveva visto, erano decine di taccuini e centinaia di fotografie.
Era la cassa di Arthur Rimbaud, che incontrò per caso a Tadjura, “un piccolo villaggio dancalo con qualche palmizio e qualche moschea, un forte con 6 soldati francesi e un sergente”.
Franzoj era alla ricerca dei laghi equatoriali e Rimbaud aspettava notizie per concludere un affare che, era certo, lo avrebbe fatto diventare finalmente ricco.
“Mi trovo qui per formare una carovana per lo Scioa – diceva – Ho un carico di vecchi fucili a stantuffo in disuso da quarant’anni che dai venditori di armi usate, a Liegi o in Francia, valgono 7, al massimo 8 franchi, al pezzo. Al re dello Scioa, Menelik II, li venderò a una quarantina di franchi.”
Franzoj conosceva i versi di Rimbaud, ma gli ci volle un po’ per realizzare che quel trafficante d’armi, neppure troppo onesto, era la stessa persona che Paul Verlain definiva un genio; non sapeva che aveva abbandonato Parigi otto anni prima, dopo aver fatto a pezzi tutti i canoni della poesia e averli rimontati in qualcosa di diverso, di rivoluzionario.
Da allora di lui non se ne seppe più nulla, ma furono in pochi a lamentarne l’assenza.
I suoi maestri parnassiani, che avendolo tra i piedi rischiavano di trovarsi trasformati, dall’oggi all’indomani, in vecchi arnesi della retorica rimata, tirarono un sospiro di sollievo quando sparì.
“Scolpisci, lima, cesella; che il tuo sogno fluttuante si sigilli nel sasso resistente!” Diceva Théophile Gautier, il Gran Maestro che teorizzava l’arte per l’arte, fine a sé stessa, pura sagra della bellezza.
Altro che scolpire lavorando di cesello e di lima, rispondeva Rimbaud, altro che sagra della bellezza: “Si tratta di fare l’anima mostruosa, come un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi; bisogna farsi veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi.”
Persino sua madre si dovette sentire in qualche modo sollevata dall’uscita di scena di un figlio così pubblicamente scandaloso, che andava finalmente a insabbiarsi tra le lande desolate della Somalia e l’altopiano fratturato dell’Etiopia, lontano dall’amabile, rozzo e incolto perbenismo della sua cittadina delle Ardenne.
Nei giorni di Tadjoura tra Rimbaud e Franzoj nacque una vera amicizia.
Ugo Ferrandi, compagno di viaggio di Franzoj, racconterà che li vedeva spesso “impegnati in lunghe discussioni letterarie, dai romantici ai decadenti.”
Per quel che si sa, questa fu l’unica volta, nella breve vita africana, in cui Rimbaud tornò a parlare di qualcosa che apparteneva al passato.
Dalla cassa su cui erano incise le sue iniziali prendeva mazzi di fotografie e taccuini dai quali leggeva poesie che raccontavano la sua Africa, le donne etiopi, la luna di Harar.
Solo dopo il rientro in Italia Franzoj scoprì che Rimbaud non aveva pubblicato nessuno di quei versi e si rese conto dell’unicità dell’incontro, del privilegio che gli era stato concesso.
Nel 1891 il poeta morì per un tumore al ginocchio: aveva 37 anni e la sua fama si dilatò fino a farlo diventare uno dei più grandi dell’800.
Franzoj attese inutilmente l’uscita degli scritti africani.
La cassa era scomparsa, persa lungo il tragitto che avrebbe dovuto portarla in Francia, dimenticata in qualche magazzino tra Harar e Aden.
Passò anni cercando di organizzare una spedizione per ritrovarla, ma le autorità italiane gli impedirono di tornare in Etiopia.
A un uomo dal carattere spigoloso, capace di reagire d’istinto a ogni ingiustizia, che non sopportava i malonesti e i lacchè, non si poteva consentire di andare in luoghi nei quali il governo vagheggiava ambizioni coloniali.
Non ci si poteva fidare di un cane sciolto, di un amante degli eccessi, di un rivoluzionario scapigliato finito spavaldamente in carcere per i suoi ideali; di uno che era stato capace di sfidare con un unico gesto cinque ufficiali dell’esercito regio e di batterli tutti in una sola mattinata; non era pensabile dar credito a chi aveva spinto all’infedeltà stuoli di donne ben maritate.
Venne messo in un angolo, dimenticato, anche se Giosuè Carducci e Cesare Correnti erano suoi estimatori, anche se era stato il primo e il più brillante tra gli inviati speciali della Stampa.
Negli anni in cui il giornalismo era prosa leziosa, lui scriveva per sintesi e per immagini:
“Massaua è il più sgradito porto del Mar Rosso. Ai tempi di Mosè questo era il mare prediletto da Dio. Ora Dio l’ha dimenticato. Tutte le 10 piaghe d’Egitto sono venute qui a lasciare parte delle loro miserie. Caldo acrobatico, 40 gradi all’ombra, afa, zanzare, vento e noia, e l’amministrazione egiziana più fastidiosa del vento Kamassin! Strade difficili, torrenti impetuosi, vegetazione superba, fauna svariatissima, storie sventurate, soli splendidi e miti, notti andalusiane, acqua fredda come il ghiaccio, fame inesauribile come la bontà di Dio, profumi inebrianti, bazi-buzuck manigoldi idem, idem come da Kalameda. Se si vuole aggiungere ad ogni costo qualche cosa si dice che gli abiti degli indigeni andavano, mentre mi inoltravo, semplificandosi a vista d’occhio, tanto che uomini e donne finivano a mostrare ciò che il buon Dio nostro, ma soprattutto le nostre questure, vogliono assolutamente si tenga celato.”
Era un grande Franzoj!
Fu l’ispiratore di Emilio Salgàri che, poveraccio, schiavizzato per poche lire dal suo editore, in sedici anni diede alle stampe 84 libri e bevve 5.844 bottiglie di Marsala senza muoversi da Torino, rispettando con masochistico rigore l’impegno contrattuale di consegnare ogni ventiquattro ore tre pagine pronte per la stampa: 17.532 pagine in sedici anni.
Erano le 10 e mezza del 13 aprile 1911, giovedì di Pasqua, e Augusto Franzoj, seduto sotto l’albero in cima alla collina, non ripercorse affatto il cammino nostalgico del suo passato: guardò Torino per l’ultima volta senza provare alcuna emozione, salutò con un infantile rimpianto il suo ultimo sogno, la cassa di Rimbaud, poi, sospirando, puntò le due pistole alle tempie, tirò simultaneamente i grilletti e i revolver americani eseguirono impeccabilmente il compito per cui erano stati creati.
Le pallottole incrociarono le loro traiettorie al centro del cervello poco prima di fargli esplodere la scatola cranica.
Salgàri si ispirò a lui anche quando, finalmente, decise di sciogliere il contratto con il suo editore: 12 giorni dopo andò armato di rasoio nel boschetto della Madonna del Pilone, a 4 chilometri dalla collina scelta dall’amico, e fece seppuku come un samurai per poi squarciarsi la gola. Nulla a che vedere con il gesto estremo d’avanguardia, senza fronzoli, senza rituali, di una testa che esplode in direzioni opposte con moto uniforme per creare il massimo della scapigliatura.